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Fine delle trasmissioni

Da Faustotazzi
Fine delle trasmissioni
Questo appartamento appena ristrutturato in una ex zona popolare di Parigi è di proprietà di un  Egiziano, lo ha acquistato qualche anno fà, occupato, perché così costano meno. Occupato da una signora anziana che viveva sola e dopo qualche anno, in un mese di febbraio, è morta. Allora il monsieur Fouad l’ha ristrutturato e sono arrivato io.
La scorsa settimana ho letto un articolo di fondo del Korea Joongang Daily che parlava delle godoska. Raccontava di Kim Seok-hun, che ha trentasette anni e fa un lavoro sporco: lo chiamano e lui ripulisce le tracce degli anziani negli appartamenti. Cancella i segni di quelle cose che fino a poco tempo prima erano stati esseri umani, persone vive, come noi, che respiravano, si muovevano, avevano pensieri, sentimenti, provavano emozioni, vivevano quelle case. Ecco cosa fa Kim, ripulisce i resti degli anziani che muoiono da soli, le chiamano godoska, le morti solitarie che stanno prendendo sempre più piede in un mondo pensato in altri anni, in altri modi, per altre vite, altri numeri e che sta lentamente ma inesorabilmente invecchiando.
L’odore delle della carne in decomposizione, il sangue rappreso, i corpi dimenticati in quelle case per giorni, a volte per mesi. Dicono che l'odore della morte sia nauseante, come una puzza intensa di feci di gatto. E' il lato oscuro della nostra era, uno di quegli affari che non ci piace vedere quindi paghiamo qualcuno per rimuoverlo, nell'ansia di ripulire, dimenticare alla svelta. E così vengono dimenticati  milioni di uomini e donne che sono invecchiati e morti da soli. Può capitare a chiunque: un divorzio, rimanere vedovi, ritoravarsi figli e nipoti in un’altra città, un altro paese, un altro continente.
Un uomo lascia tre bare in un crematorio, le lascia cadere come getterebbe l’immondizia, abbandonati nella morte come sono stati abbandonati nella vita perchè forse la morte è davvero solo una continuazione della vita, le separa un'impercettibile membrana, sembrano due mondi, un inizio e una fine ma la linea in fondo è talmente sottile che nemmeno divide. Penso che sia una fortuna poter ancora avere una famiglia dentro cui rifugiarsi per morire. 
Loro se ne sono andate insieme, ed è un fatto che non può lasciare indifferente. Si sono aspettate in nome di una vita, di novant'anni, poi una dopo l’altra sono partite. Si sono spente poco a poco, cosa avranno pensato in quei mesi, in quegli anni? Come si vivono gli ultimi tempi, quelli in cui si ha la coscienza di stare scivolando irrimediabilmente oltre?
Quelli in cui le gambe che saltavano e superavano correndo dal cortile all’orto perdono vigore e si muovono a stento sotto un corpo smagrito di pelle e di ossa ma comunque ormai per loro troppo pesante. E le le orecchie - che non lasciavano scampo ai sussurri delle donne delle pulizie nascoste di sopra nelle camere, che intercettavano in fondo della strada le grida dei merciai - quelle stesse orecchie che adesso non intendono più di un ronzìo noioso che riempie continua la testa, ovattata come  un acquario mentre il mondo si agita tutto intorno. Quelli in cui tocca indovinare quello che si dice là fuori e costa una fatica spossante indovinare il senso di una frase da una sola parola, sentita appena, compresa male. La pelle che si disarticola rughe e macchie e piaghe, vecchia e macilenta; le braccia pesanti, le mani che tremano, quelle stesse mani che ferme sapevano tenere a bada anche il nipote più indisciplinato nelle vacanze ora non riescono nemmeno a portare la forchetta alla bocca, che tocca sbavare il bavaglio come neonate idiote.
E il cervello che piano piano va in poltiglia. Io credo che in quegli ultimi tempi a volte pensino cose strane, o meditino tutti i segreti che non hanno mai detto e ora vorrebbero rivelare. Altre volte invece penso che non riescano più a ricordare e che tanto poco importa perchè le loro bocche una volta chiare ora devono sforzarsi anche solo per articolare una singola, breve parola, e malgrado questo ne esce solo una lingua pasticciata che solo io capisco vorrebbe dirci “sto bene”.
E quando hanno sentito la fine - perchè penso proprio che la si senta, quando arriva, la fine - non avranno fatto altro che mettersi semplicemente ad aspettare. Quelli intorno che parlavano, probabilmente di loro, che non potevano  più ascoltare dal limbo di un fuori-da-se ovattato di chi è ancora lì e allo stesso tempo non è già più. L'ultimo scampolo di vita, un mondo di mezzo talmente singolare che sarebbe bello ce lo raccontassero, ci dicessero tutto quello che succede laggiù dentro di loro, se solo gli uscissero ancora le parole. Perchè in tutti questi anni ne avranno pensati di pensieri, e adesso sono tutto quello che gli resta, l’unica cosa che ancora funziona ma noi non lo sapremo mai perché loro ci sentono, ci vedono, ma ormai non possiamo più comunicare.
Fino a che, come i vecchi televisori in bianco e nero, qualcuno preme il pulsante off e loro si spengono con un ronzio e un puntino bianco che si chiude lentamente. Ecco, in quel preciso istante loro sono solo un puntino che si rimpicciolisce piano prima di sparire, sempre meno scariche, meno impulsi eccitano i loro pixel e quella danza di molecole che hanno dato la vita si prepara a terminare.
Ma io so che tu, mentre lieviti, mentre ci lasci, mentre parti, pensi distintamente "non preoccupatevi, io sto bene. Anche se non sono più in grado di dirvelo, non posso parlarvi, non preoccupatevi: ora io sto bene".
(Sung So-young - All alone when death come knocking, in Korea JoongAng Daily del 24 Gennaio 2013)

Per le mie zie, che si sarebbero spente pochi giorni dopo


Riprendendo le sigle di chiusura della Rai una menzione, particolarissima, va fatta, per quest'ultima, che era simile a quella di apertura con la differenza che il traliccio - di disegno diverso e più corto - scorreva nella direzione opposta rispetto a quella iniziale, quindi dal basso verso l'alto. Una volta che il traliccio era scomparso dallo schermo appariva in sovraimpressione la scritta in corsivo "Fine delle trasmissioni". L'accompagnamento musicale era costituito da un brano di Roberto Lupi, intitolato Saturno. Questa sigla è rimasta nell'immaginario collettivo di molte persone perché generava un senso di inquietudine e di paura in chi la guardava, soprattutto nei bambini dell'epoca, probabilmente per il colore nero del cielo cui spiccava il bianco quasi spettrale delle nuvole. (Fonte: Wikipedia)


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