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Fosca Massucco - L'occhio e il mirino

Da Ellisse

Fosca Massucco - L'occhio e il mirinoFosca Massucco - L'occhio e il mirino - Ed. L'arcolaio 2013

Di primo acchito questa raccolta di Fosca Massucco dà l'impressione di potervi rinvenire una buona dose di crepuscolarismo, a partire da una vena gozzaniana che a me pare persistente in molta poesia attuale, per quanto qui ampiamente modernizzata e con meno ironia. C'è altro naturalmente, ma vediamo per ora di partire da qui. E cioè dal fatto, per me indubitabile, che le "piccole cose" abbiano un ruolo centrale in questa raccolta e nella poetica dell'autrice, piccole cose o eventi o fenomeni o la ricerca e la cura di "apparizioni" della natura solo in prima istanza minimali. Che queste "piccole cose", intese in senso generale, poi possano essere di conforto o di inquietudine o riflessione (meglio diremmo meditazione, per ragioni che vedremo) è in ragione della volontà di Fosca di farsene investire e riempire o viceversa di dominarle intellettualmente. Non uso a caso il termine "volontà" poichè a me sembra che  talvolta ci sia, in questi testi, un intento a ricercare il momento, l'occasione, la scintilla emotiva o perfino un satori, un'illuminazione. Nessuna occasione montaliana, per intenderci, semmai la ricerca di una epifania, di una agnizione. Con una certa avidità, direi, che però è avidità di vita, spasmo della poesia, quando si manifesta, all'interno di essa. E questa ricerca, se non modulata, può portare alla costruzione del momento illuminante, come ad esempio in questa breve poesia che richiama il "Campo di grano" di Van Gogh, testo in cui - cosa a cui alludevo prima - è l'intelletto (la cultura) a dettare il verso e anche, in modo non secondario, la forma, con quella cesura a contrasto rinvenibile in tanta poesia giapponese:
Il genio dell’uomo è foggiare
rotonde balle di fieno
immote in una laguna
d’erba disseccata.

La perfezione di dio
è disporre sopra due corvi.
L'occhio e il mirino non sono che due facce della stessa medaglia, anzi meglio, della stessa identità, secondo una vulgata tipicamente orientalista, come la freccia e il bersaglio nel noto libretto di Eugene Herrigel. La poesia da cui il titolo proviene afferma appunto "Così sono io, l’occhio e il mirino", ma avverte anche che "l’occhio è un mirino, a fissarlo [l'arcobaleno] non lo scorge". C'è quindi, in questi due versi, tutta la coscienza proprio di ciò a cui accennavo prima, del limite cioè della poesia come atto creativo volitivo, della necessità altresì che l'io si defili o si fonda, anneghi, nella scrittura, senza "fissazioni". La ricerca, in questa silloge, è sul piccolo, la voglia è di scoprire la meraviglia in un petalo, il senso in un alito di vento. Tanto spesso ci imbattiamo in questi testi in "oggetti poetici" come un pruno soave, una vespa, una rosa, una lumaca, il fuoco nel camino, fiori nel giardino, formiche, corvi, sere agostane, mandorli, bossi, ginestre, colline. Ma qui è singolare notare come tutte queste cose non siano più gli antichi simboli della tradizione occidentale, ma oggetti che devono essere (in sé e quasi ideologicamente) portatori di un senso ("Deve trovarmi pronta l'armonia / delle cose - / un gatto un falò, un inverno / o pressappoco - / prima che cambi idea"), veicoli di una dimensione ulteriore a cui con l'occhio e il mirino si possa accedere. Perciò l'autrice, in buona parte del libro, sembra tesa alla creazione di un microcosmo il più possibile felice (o, forse meglio, moderatamente infelice) e forse alieno all'esterno, in cui il sentimento predominante sembra essere la malinconia o una "serena" inquietudine. E' in questo hortus conclusus che si esplica gran parte del lavoro poetico di questo libro, che Fosca svolge e dipana senza "improvvisazioni nella sua scrittura, ma con misura e armonia" (Dante Maffia, nella prefazione), ma anche con notevole maestria linguistica e prosodica la sua poesia "solitaria". Eppure, anche se così  può essere, bisogna infine che il poeta ceda, si faccia trapassare dalle sue esperienze, che l'io, come dicevo prima, "fonda". Per fortuna (non è, secondo Aristotele, il tragico l'elemento più interessante in arte?)  il microcosmo si incrina: c'è qualcuno, qualcosa là fuori, succedono drammi piccoli o grandi di cui le cose sono spettatori impotenti.  Ed ecco, nei testi migliori, quelli che preferisco, alcuni dei quali di notevole intensità come ad esempio Sono stanca di essere stanca oppure E quando pensavo di averlo trovato (v. più avanti), ecco che l'autrice diventa meno spettatrice meditabonda, meno "poetessa del particolare" (Luigi Papandrea, nella postfazione) e si fa più soggetto attore di una vicenda che può appartenere a tutti coloro che la leggono. (g.c.)
1 di 4 – Mattino
Il vento scrolla le vespe
dall’alba, scuote i pertugi
fangosi della requie notturna –
ed esse vacillano ruggenti
tra i viluppi di lavanda.
Nelle ore torna bonaccia
e governa – la vespa tenace
– le ultime raffiche,
l’aria ferma accoglie
un'ansia di primavera.
Oggi sono verticale.
Gravida per induzione
come traliccio d’alta tensione –
m’attraversa la vita senza scavo.
Ed esisto – ponte ad immobili campate
collegando frange di universo
in corsa parallela ignare d’altra memoria.
Io sola so
e non mi servirà a nulla.
Come una vecchia cascina riattata
così mi riconosco – piena di falsi piani
e storie bislacche. Io, una casa della bassa,
qualsiasi – in nulla appariscente.
Se non spurgo umido
come fan per bene i muri crudi,
anche in me risalgono
salnitro e muffe.
Se non rimango mobile,
impassibile ai tarli ma cedevole
alla terra di fondazione,
mi aprirò dal profondo.
Quando fui solo un pensiero
c’eran di mezzo lenzuola al vento,
si delimitavano così muri storti e famiglie.
Il mondo sta dentro queste cose,
il resto è il tempo che si perde.
Ci sono istanti di marzo che inducono all’attesa
e mi vedono scrivere, china, inutilmente –
il vento falso, qualche gemma impertinente
un fiore di serra acquistato l’altro dì.
Seduta, guardo fuori dai vetri
il giardino immobile che chiama –
un passo, uno solo basterebbe.
Di nuovo mi imbroglierà – chi non dimentica
un impegno per il primo cinguettio dell’anno, chi sfugge
al fiato mozzo guardando il dito che indica la rondine?
Io mi incanto anche nel niente, non mi serve un motivo
per volare – poi atterro veloce. Ci sono panni e pannolini,
minestre e cure che mi tengono occupata,
non è facile il mestiere del poeta al giorno d’oggi.
Sono stanca di essere stanca.
Cammino veloce attraverso i binari
schivando la voce che piove dall’alto.
Se sembro rapida nessuno intende la fatica,
se guardo interessata nascondo debolezza.

“Treno in partenza dal binario 10”

Cosa credi, che non lo sappia?
E’ questa vita che mi zavorra, lasciandomi
una smorfia di prossima nausea.
Non partire, eccomi. Se salgo al volo
sobbalzerà l’entusiasmo sul fondo?
– ammesso che ce ne sia ancora.
Ammesso ma non concesso
come il posto a sedere
accanto ad un dormiente russatore –
che si sogna i suoi sogni, anche se
i miei sarebbero più belli.
E quando pensavo di averlo trovato
l’equilibrio immobile delle sere agostane
quando mi convincevo a credere – e credevo
che i mandorli, l’aria e le briciole
che tutto nella sua perfezione
fosse fermo, quando anche il dolore
degli amici – sepolti spietati –
aveva trovato requie, neppure
il tempo di guardarmi da fuori e sorridere
senza stavolta strozzare la gioia
– mi trovo a piangere appoggiata al carrello
freddo di novembre, tra gli scaffali
dei formaggi e del cibo per cani.
Perdonare un addio è facile
e si fa grande impressione.
Così perdono la tua assenza,
il mio strazio ed il niente successivo.
L’addio definitivo rende liberi
senza tormento – manco un ricordo
duole se non voglio, i fasci
di tempo allacciati a covone
nella memoria ristanno muti.
Ma se sopraggiunge il vento
di un evento inatteso, insperato –
o semplicemente ignoto e smuove
i pensieri a cui volto le spalle,
ecco volare ricordi.
Perché ogni sera ha il suo ritorno,
il suo chiamare e le ansie disattese
– a nulla rispondi, da vent’anni –
e i ricordi sono l’unico ritorno.
“Un matrimonio per essere buono
non necessita di felicità, ma di stabilità”
“Noi abbiamo entrambi”

Ho ingoiato il nostro amore.
Sottile lisca di pesce
si è fermato scomodo in gola
non più voce – non ancora coraggio.
“Quale inopportuna disattenzione
ti permise ingresso?
Dove avevo distratto i pensieri?”

(mentre il tempo ristava crocchiando
come legna estiva ad asciugare –
mentre m’offrivo, terrazza in rigoglio
alle carte, ai pensieri, ai limoni
della cedevole sera agostana)
“Ingollerò molliche di stabilità quotidiana
per possederti tenacemente
dentro o – almeno – fermo”


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