Magazine Cinema

Il figlio di Saul di Laszlo Nemes: la recensione

Creato il 20 gennaio 2016 da Ussy77 @xunpugnodifilm

locandinaUn esordio da brividi. Auschwitz come mai era stato mostrato

Un incubo a occhi aperti di bruciante bellezza. Il figlio di Saul, film premiato a Cannes 66, è uno sguardo “squadrato” (un formato 4:3 che lascia spazio all’immaginazione) e innovativo all’interno di Auschwitz. Un prodotto che catalizza lo spettatore e lo trascina all’interno del campo di concentramento, grazie alla privilegiata soggettiva di un ebreo costretto a fare il “lavoro sporco”.

Saul è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz. Reclutato come sonderkommando, Saul è costretto ad assistere allo sterminio della sua gente. Testimone dell’orrore e deciso a sopravvivere, Saul insieme ai suoi compagni si appresta alla rivolta prima che una nuova lista di sonderkommando venga stilata. Tuttavia un giorno Saul “riconosce” nel cadavere di un ragazzo suo figlio e decide di salvarlo dalla cremazione per dargli una degna sepoltura. Così si mette alla disperata ricerca di un rabbino.

Al debutto alla regia (ma non dietro la macchina da presa, essendo stato l’assistente di Bela Tarr), Laszlo Nemes sconvolge pubblico e critica con un film dal fortissimo impatto emotivo e dallo stile opprimente e soffocante. Difatti lo spettatore si ritrova catapultato all’interno di Auschwitz, preso per mano da una macchina da presa che segue in ogni angolo il protagonista e che fa vivere un’esperienza unica e personale. La soggettiva atipica con cui il regista innaffia l’intero film è quella di Saul, un sonderkommando (ovvero l’addetto alle operazioni di sterminio di altri ebrei deportati, allo smaltimento dei cadaveri e alla successiva cremazione) con disegnata una grossa ics rossa sulla schiena (normalmente c’era un fortissimo ricambio una volta conclusi diversi “lavori”). È lui che Nemes immortala e a cui riserva l’arduo compito di condurre nell’inferno il pubblico. La scelta di adottare tale stile è rischiosa, ma fruttuosa perché l’immersione emotiva è totale. Nessun campo totale, riprese ravvicinate e forzatamente parziali divengono gli unici stilemi a cui ci si può aggrappare per entrare in contatto con lo sterminio e con la perdita d’umanità perpetrata dai nazisti. Un lavoro enorme e fortemente impattante, che rivoluziona il linguaggio del cinema dedicato alla Shoah, ultimamente eccessivamente aggrappato a messinscene cinematografiche esclusivamente finalizzate a non dimenticare, piuttosto che interessate far rivivere l’esperienza con livore.

Pellicola che possiede un sapore mistico (il nome del protagonista non appare casuale e anche la missione impossibile che si auto-destina custodisce un ricongiungimento con le origini e con la normalità) e che definisce la brutalità con vigore e fervore, Il figlio di Saul è un’esperienza che abbraccia i cinque sensi (soprattutto il lavoro sul sonoro è pazzesco). Un prodotto necessario e desideroso di raccontare la dannazione e la geometria del campo di morte attraverso il sudore dei forni, l’olezzo dei cadaveri e uno sguardo personale, che mostra in modo brutalmente innovativo l’estinzione ebraica. Chapeau.

Uscita al cinema: 21 gennaio 2016

Voto: ****


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :