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Il grande Gatsby – Francis Scott Fitzgerald (estratto)

Creato il 05 gennaio 2014 da Maxscorda @MaxScorda

5 gennaio 2014 Lascia un commento

!! ATTENZIONE SPOILER !!

Tra i miei ricordi più vivi ci sono i miei ritorni a casa dal liceo e poi dall’università per le vacanze di Natale. Quelli che andavano oltre Chicago si riunivano nella vecchia Union Station semibuia alle sei di una sera di dicembre con qualche amico di Chicago, già avvolti nell’allegria delle vacanze, a dar loro un frettoloso saluto. Ricordo le pellicce delle ragazze che ritornavano dalla signorina tale e talaltra, il cicaleccio degli aliti gelati, mani che si alzano a salutare quando si rivedevano vecchi amici e lo scambio di inviti: "Vai dagli Ordway? Dagli Hersey? Dagli Schultz?" e i lunghi biglietti verdi tenuti stretti dalle nostre mani guantate. E alla fine le sporche vetture gialle della ferrovia Chicago, Milwaukee e Saint Paul, allegre come il Natale, sulle rotaie a fianco del cancello d’ingresso.
Mentre ci inoltravamo nel vento notturno e la vera neve, la nostra neve, incominciava a stendersi al nostro fianco e ad ammiccare contro i finestrini, e le luci fioche delle stazioncine del Wisconsin ci passavano accanto, l’aria diventava improvvisamente e stranamente aspra e tonificante. Ne aspiravamo boccate profonde mentre uscivamo dalla sala da pranzo nei vestiboli freddi, consapevoli, per un momento strano, della nostra identità con questa regione, prima di fonderci di nuovo in essa inscindibilmente.
Questo è il mio Middle West; non il grano né le praterie né le città svedesi scomparse, ma gli emozionanti treni di ritorno della mia gioventù e i lampioni delle strade e i campanelli delle slitte nel buio brinato e le ombre delle corone di agrifoglio gettate dalle finestre illuminate sulla neve. Io faccio parte di tutto questo, un poco solenne per la sensazione di quei lunghi inverni, un poco compiaciuto di essere cresciuto nella casa dei Carraway in una città dove le dimore sono ancora da decadi chiamate col nome di famiglia. Mi accorgo adesso che questa è stata una storia del West, dopo tutto: Tom e Gatsby, Daisy e Jordan e io eravamo tutti del West e forse soffrivamo di qualche deficienza che ci rendeva sottilmente inadatti alla vita dell’Est.
Anche quando l’Est mi esaltava al massimo, anche quando ero più acutamente consapevole della sua superiorità sulle città annoiate, disordinate, turgide di là dall’Ohio, con le loro interminabili malignità che risparmiavano soltanto i bambini e i vecchissimi, anche allora l’Est ha sempre avuto per me qualcosa di alterato. Specialmente West Egg continua ad affacciarsi nei miei sogni più fantastici. Lo vedo come una scena notturna di El Greco: un centinaio di case, insieme convenzionali e grottesche, acquattate sotto un cielo torvo e incombente e una luna senza fulgore. Sul davanti quattro uomini solenni, vestiti da sera, camminano sul marciapiede con una barella sulla quale giace una donna ubriaca vestita di bianco. La mano di lei, penzolante da una parte, brilla di gioielli freddi. Gravemente gli uomini entrano in una casa, una casa sbagliata. Ma nessuno conosce il nome della donna, e nessuno se ne cura.

Dopo la morte di Gatsby l’Est divenne per me una persecuzione di questo genere, alterato più di quanto i miei occhi avessero la possibilità di rettificarlo. Così quando il fumo azzurro delle foglie fragili invase l’aria e il vento smosse la biancheria bagnata rigida sulla corda, decisi di ritornare a casa. Prima di partire mi restava da fare una cosa, una cosa imbarazzante, spiacevole, che forse sarebbe stato meglio non fare. Ma volevo lasciare tutto in ordine e non dovermi fidare che il mare cortese e indifferente spazzasse via le mie scorie. Andai da Jordan Baker e parlai a lungo di ciò che ci era successo e di ciò che dopo era successo a me; lei rimase ad ascoltarmi, immobile in una poltrona.
Era vestita da golf e ricordo di aver pensato che sembrava una bella fotografia, col mento sollevato e vivace, i capelli color foglia d’autunno, il viso dello stesso bruno del guanto senza dita appoggiato sulle ginocchia. Quando finii di raccontare mi disse senza complimenti che era fidanzata con un altro. Non le credetti, per quanto fossero molti gli uomini che l’avrebbero sposata solo che avesse fatto un cenno del capo, ma finsi di essere sorpreso. Per un momento mi chiesi se non stavo facendo uno sbaglio, poi ripensai in fretta a ogni cosa, e mi alzai per salutarla.
«Però sei stato tu a liquidarmi» disse improvvisamente Jordan. «Mi hai liquidata per telefono. Ora non m’importa più un accidente di te, ma è stata un’esperienza insolita, e per un po’ ci sono rimasta male.»
Ci stringemmo la mano.
«Oh, e ricordi» soggiunse «la conversazione che abbiamo fatta una volta a proposito di guidare la macchina?»
«Be’… non proprio.»
«Hai detto che chi guida male è a posto soltanto finché non incontri qualcun altro che guidi male. Be’, ho incontrato un altro che guida male… vero? Voglio dire che è colpa mia se non ho capito niente. Credevo che tu fossi una persona piuttosto onesta, leale. Credevo che questo fosse il tuo orgoglio segreto.»
«Ho trent’anni» dissi. «Ho cinque anni di troppo per mentire a me stesso e chiamarlo onore.»
Non rispose. Molto in collera, mezzo innamorato di lei, ed enormemente seccato, me ne andai.
Un pomeriggio, verso la fine di ottobre, vidi Tom Buchanan. Camminava davanti a me nella Quinta Avenue con quel suo fare vigile e aggressivo, tenendo le mani leggermente spostate dal corpo come per difendersi da qualsiasi contatto; il capo si girava brusco di qua e di là, adattandosi agli occhi irrequieti. Proprio mentre rallentavo per evitare di raggiungerlo, si fermò e incominciò a scrutare la vetrina di un gioielliere. D’un tratto mi vide e mi venne incontro, tendendomi la mano.
«Che cosa è successo, Nick? Non vuoi più stringermi la mano?»
«Già. Sai benissimo quello che penso di te.»
«Sei pazzo, Nick» disse lui in fretta. «Completamente pazzo. Non so che cosa ti sia capitato.»
«Tom» chiesi «che cosa hai detto a Wilson quel pomeriggio?»
Mi fissò senza dire una parola ed io capii che non mi ero sbagliato sull’impiego di quelle ore di Wilson, rimaste senza spiegazione. Stavo per voltarmi e andarmene, ma Tom mi raggiunse e mi prese per il braccio.
«Gli ho detto la verità» disse. «È arrivato sulla porta mentre stavamo per partire, e quando gli ho fatto dire che non c’eravamo ha cercato di salire con la forza. Era abbastanza pazzo da uccidermi, se non gli dicevo a chi apparteneva quella macchina. Per tutto il tempo che rimase in casa, tenne la mano su una rivoltella che aveva in tasca…» Poi esplose con sfida. «E anche se gliel’ho detto? Quell’individuo ha avuto quel che si meritava. Ha buttato polvere negli occhi a te come ha fatto con Daisy, ma era un violento. Ha investito Myrtle come si potrebbe investire un cane e non ha neanche fermato la macchina.»
Non c’era nulla che potessi dire, tranne l’unico fatto che non si poteva dire, cioè che non era vero.
«E se credi che non abbia avuto anch’io la mia parte di dolore… Guarda, quando sono andato a disfarmi di quell’appartamento, e ho visto quella maledetta scatola di biscotti per cani appoggiata là, sul tavolo, mi sono seduto ed ho pianto, come un bambino… Perdio, è stato terribile…»
Non riuscivo a perdonargli e neanche a trovarlo simpatico, ma capii che dal suo punto di vista ciò che aveva fatto era pienamente giustificato. Era stato tutto molto confuso e pasticciato. Erano gente sbadata, Tom e Daisy: sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia sbadataggine o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto…
Gli strinsi la mano; mi sembrava sciocco non farlo, perché improvvisamente mi parve di parlare a un bambino. Lui entrò dal gioielliere a comprare una collana di perle – o forse soltanto un paio di gemelli – libero per sempre dalla mia provinciale pedanteria.
Quando partii, la casa di Gatsby era ancora vuota: l’erba del suo prato cresciuta come quella del mio. Uno chauffeur di taxi del villaggio non passava mai davanti al cancello d’ingresso senza fermarsi un attimo a indicarlo; forse era stato lui a condurre Daisy e Gatsby a East Egg la sera dell’incidente, e forse aveva inventato una sua storia personale. Non volevo udirla e lo evitai quando andai a prendere il treno.
Passai a New York i miei sabato sera perché quei suoi ricevimenti sfavillanti, abbaglianti, erano rimasti così vivi in me, che udivo ancora la musica e le risate lievi e incessanti che giungevano dal suo giardino e le automobili che continuavano a percorrere il suo viale. Una sera udii un’automobile vera, e vidi i fari fermarsi ai gradini d’ingresso. Non andai ad informarmi. Probabilmente era un ultimo ospite che arrivava dall’altra estremità della terra e non sapeva che la festa era finita.
L’ultima sera, col baule già chiuso e la macchina già venduta al droghiere, uscii a rivedere per l’ultima volta quell’enorme e incoerente tentativo fallito di casa. Sui gradini bianchi una parola oscena, scarabocchiata con un pezzo di mattone da qualche ragazzino, risaltava chiara sotto la luce della luna; la cancellai, raschiando la pietra con la scarpa. Poi scesi lentamente sulla spiaggia e mi distesi sulla sabbia.
Quasi tutte le grandi ville costiere oramai erano chiuse e le luci erano rare, se si toglieva il chiarore di un ferryboat la cui ombra si spostava attraverso lo stretto. E mentre la luna si levava più alta, le case caduche incominciarono a fondersi, finché lentamente divenni consapevole dell’antica isola che una volta fiorì per gli occhi dei marinai olandesi: un seno fresco, verde, del nuovo mondo. Gli alberi scomparsi, gli alberi che avevano ceduto il posto alla casa di Gatsby, avevano una volta incoraggiato bisbigliando il più immane dei sogni umani; per un attimo fuggevole e incantato, l’uomo deve aver trattenuto il respiro di fronte a questo continente, costretto ad una contemplazione estetica, da lui non capita né desiderata, mentre affrontava per l’ultima volta nella storia qualcosa di adeguato alla sua possibilità di meraviglia.
Mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter fuggire mai più. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quel vasto buio dietro la città, dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte.
Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa: andremo più in fretta domani, allungheremo ancora di più le braccia… e una bella mattina…
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.


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