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Il mondo nuovo – Aldous Huxley (estratto)

Creato il 26 settembre 2014 da Maxscorda @MaxScorda

26 settembre 2014 Lascia un commento

La stanza nella quale furono introdotti tutti e tre era l’ufficio del Governatore.
«Sua Forderia scenderà tra un minuto.» Il maggiordomo Gamma li abbandonò a sé stessi.
Helmholtz scoppiò in una risata.
«Tutto questo somiglia più a una riunione per prendere una tazza di soluzione di caffeina che a un giudizio» disse e si lasciò cadere nella più accogliente delle poltrone pneumatiche. «In alto i cuori, Bernardo!» aggiunse come il suo sguardo si posò sul viso verdastro e triste del suo amico.
Ma Bernardo non voleva essere rassicurato; senza rispondere, senza neppure guardare Helmholtz, si mise a sedere nell’oscura speranza di scongiurare in qualche modo la collera delle potenze superiori.
Intanto il Selvaggio si aggirava per la camera eccitatissimo, guardando con vaga curiosità superficiale i libri degli scaffali, i rulli a iscrizioni sonore e le bobine delle macchine per leggere, nelle loro caselle numerate. Sulla tavola, sotto la finestra, c’era un grosso volume rilegato in surrogato di cuoio nero flessibile e marcato con larghe T dorate. Lo prese e l’aprì.
"La mia vita e le mie opere" del Nostro Ford. Il libro era stato pubblicato a Detroit a cura della Società per la Propagazione della Conoscenza Fordiana. Negligentemente egli voltò le pagine, lesse qua una frase, là un periodo e stava per giungere alla conclusione che il libro non l’interessava, quando l’uscio si spalancò, e il Governatore Mondiale Residente per l’Europa occidentale entrò vivacemente nella stanza.
Mustafà Mond strinse la mano a tutti e tre; ma fu al Selvaggio che si rivolse: «Dunque, voi non amate troppo la civiltà, signor Selvaggio”
disse.
Il Selvaggio lo guardò. Era venuto disposto a mentire, a fare il bravaccio, a chiudersi in un cupo silenzio; ma, rassicurato dall’intelligenza benevola del viso del Governatore, decise di dire la verità, francamente. «No!» e scosse la testa.
Bernardo sobbalzò e lo guardò terrificato.
Che cosa penserebbe il Governatore? Essere catalogato come l’amico di un uomo che afferma di non amare la civiltà, e lo confessa apertamente, e per giunta al Governatore, era terribile.
«Ma John!» azzardò. Uno sguardo di Mustafà Mond lo ridusse umilmente al silenzio.
«Certo,» volle ammettere il Selvaggio «ci sono delle cose veramente gradevoli. Tutta questa musica aerea, per esempio…”
«’Certe volte mille sonanti strumenti cantano alle mie orecchie, e certe volte delle voci.
La faccia del Selvaggio si illuminò d’improvviso piacere.
«L’ha letto anche lei?» chiese. «Credevo che nessuno conoscesse questo libro in Inghilterra.”
«Quasi nessuno. Io sono uno dei pochissimi. E’ proibito, sapete. Ma siccome io faccio le leggi, qui, posso anche violarle. Con impunità, signor Marx» aggiunse volgendosi a Bernardo. «Mentre temo che voi non lo possiate.”
Bernardo piombò in una infelicità ancor più disperata.

«Ma perché è proibito?» domandò il Selvaggio. Nella sua emozione di trovarsi con un uomo che aveva letto Shakespeare, aveva momentaneamente dimenticato ogni altra cosa.
Il Governatore alzò le spalle.
«Perché è vecchio; questa è la ragione principale. Qui non ci è permesso l’uso delle vecchie cose.”
«Anche quando sono belle?”
«Soprattutto quando sono belle. La bellezza attira, e noi non vogliamo che la gente sia attirata dalle vecchie cose. Noi vogliamo che ami le nuove.”
«Ma le nuove sono tanto stupide e orribili! Questi spettacoli dove non c’è nulla all’infuori di elicotteri che volano dappertutto e dove si sente la gente che si bacia.» Fece una smorfia. «’Caproni e scimmie.’“
Soltanto con le parole d’Otello egli poté dare un corso conveniente al suo disprezzo e al suo odio.
«Dei buoni animali domestici, dopo tutto» mormorò il Governatore a mo’ di parentesi.
«Perché non fate leggere loro "Otello", piuttosto?”
«Ve l’ho detto, è vecchio. D’altra parte non lo capirebbero.”
Sì, era vero. Si ricordò come Helmholtz avesse riso di "Romeo e Giulietta".
«Ebbene, allora» disse dopo una pausa «qualche cosa che somigli a "Otello" e che essi possano capire.”
«E’ quello che tutti noi abbiamo desiderato di scrivere» disse Helmholtz rompendo un lungo silenzio.
«Ed è quello che tutti voi non scriverete mai» ribatté il Governatore.
«Perché, se somigliasse veramente a "Otello", nessuno lo capirebbe, per quanto nuovo potesse essere. E se fosse nuovo, non sarebbe possibile che somigliasse a "Otello".”
«Perché no?”
«Sì, perché no?» ripeté Helmholtz. Anche lui dimenticava la penosa realtà della situazione. Soltanto Bernardo, verde d’inquietudine e d’ansia, se ne ricordava; gli altri non gli badavano. «Perché no?”
«Perché il nostro mondo non è il mondo di "Otello". Non si possono fare delle macchine senza acciaio, e non si possono fare delle tragedie senza instabilità sociale. Adesso il mondo è stabile. La gente è felice; ottiene ciò che vuole, e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente; è condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di condursi come si deve. E se per caso qualche cosa non va, c’è il "soma"… che voi gettate via, fuori dalle finestre, in nome della libertà, signor Selvaggio. "Libertà"!”
si mise a ridere. «V’aspettate che i Delta sappiano che cos’è la libertà! Ed ora vi aspettate che capiscano "Otello"! Povero ragazzone!”
Il Selvaggio restò un momento in silenzio. «Nonostante tutto”
insistette ostinato «"Otello" è una bella cosa, "Otello" vale più dei film odorosi».
«Certo,» ammise il Governatore «ma questo è il prezzo con cui dobbiamo pagare la stabilità. Bisogna scegliere tra la felicità e ciò che una volta si chiamava la grande arte. Abbiamo sacrificato la grande arte.
Ora abbiamo i film odorosi e l’organo profumato.”
«Ma non significano nulla.”
«Hanno un senso loro proprio. Rappresentano una quantità di sensazioni gradevoli per il pubblico.”
«Ma sono… ‘sono raccontati da un idiota’.
Il Governatore rise. «Non siete molto gentile verso il vostro amico Watson. Uno dei nostri più distinti Ingegneri Emotivi…”
«Ha ragione lui» disse Helmholtz, triste. «Infatti è idiota. Scrivere quando non si ha nulla da dire…”
«Precisamente. Ma ciò richiede la massima abilità. Si fabbricano le macchine col minimo assoluto di acciaio, e le opere d’arte praticamente con nient’altro che la sensazione pura.”
Il Selvaggio scosse la testa. «Tutto questo mi sembra assolutamente orribile.”
«Si capisce. La felicità effettiva sembra sempre molto squallida in confronto ai grandi compensi che la miseria trova. E si capisce anche che la stabilità non è neppure emozionante come l’instabilità. E l’essere contenti non ha nulla d’affascinante al paragone di una buona lotta contro la sfortuna, nulla del pittoresco d’una lotta contro la tentazione, o di una fatale sconfitta a causa della passione o del dubbio. La felicità non è mai grandiosa.”
«Sono d’accordo» disse il Selvaggio dopo una pausa. «Ma è indispensabile che sia repulsiva come quei gemelli?» Si passò una mano sugli occhi come se volesse cancellare il ricordo dell’immagine di quelle lunghe file di nani identici sui banchi di prova, di quei greggi di gemelli facenti la coda all’ingresso della stazione al treno monorotabile a Brendfort, di quelle larve umane che invadevano il letto di morte di Linda, delle facce dei suoi assalitori ripetute all’infinito. Si guardò la mano sinistra bendata e fremette.
«Orribile!”
«Ma quanto mai utile! Vedo che voi non amate i nostri gruppi Bokanovsky, ma, vi assicuro, essi sono il fondamento sul quale è costruito tutto il resto. Sono il giroscopio che stabilizza l’aeroplano-razzo dello Stato nella sua corsa inflessibile.» La voce profonda vibrava intensamente; la mano gesticolante indicava tutto lo spazio e lo slancio della irresistibile macchina. L’oratoria di Mustafà Mond era quasi a livello dei modelli sintetici.
«Mi domandavo» disse il Selvaggio «perché voi li tollerate dopo tutto, visto che potete produrre ciò che volete in quei flaconi. Perché non fate di ciascuno un Alfa-Doppio Plus, già che ci siete?”
Mustafà Mond rise. «Perché non abbiamo nessun desiderio di farci sgozzare» disse. «Noi crediamo nella felicità e nella stabilità. Una società di Alfa non potrebbe non essere instabile e miserabile.
Immaginate un’officina gestita da Alfa, vale a dire da individui distinti e non apparentati, di buona eredità e condizionati così da essere capaci, limitatamente, di fare una libera scelta e di assumere delle responsabilità. Immaginate ciò!» ripeté.
Il Selvaggio cercò di immaginarselo, senza grande successo.
«E’ un’assurdità. Un uomo travasato in Alfa, condizionato in Alfa, diventerebbe pazzo se dovesse fare il lavoro di un Epsilon semiabortito; diventerebbe pazzo o si metterebbe a demolire ogni cosa.
Gli Alfa possono essere completamente socializzati, ma soltanto a condizione che si faccia far loro del lavoro da Alfa. Soltanto da un Epsilon ci si può attendere che faccia dei sacrifici da Epsilon, per la buona ragione che per lui non ci sono sacrifici: sono la linea di minor resistenza. Il suo condizionamento ha posato dei binari lungo i quali deve marciare. Non può impedirselo; vi è fatalmente predestinato. Anche dopo il travasamento egli continua a trovarsi nell’interno di una bottiglia, un’invisibile bottiglia di fissazioni infantili ed embrionarie. Ciascuno di noi, beninteso» proseguì il Governatore pensoso «passa attraverso la vita nell’interno d’una bottiglia. Ma se noi ci troviamo a essere Alfa, le nostre bottiglie sono, relativamente parlando, enormi. Soffriremmo enormemente se fossimo in uno spazio più angusto. Non si può versare del surrogato di spumante per caste superiori in bottiglie di caste inferiori. E’ teoricamente evidente. Ma è anche stato dimostrato nella pratica reale. Il risultato dell’esperimento di Cipro è convincente.”
«Di che cosa si tratta?» chiese il Selvaggio: Mustafà Mond sorrise. «Ecco, potete chiamarlo, se volete, un esperimento di rimbottigliamento. Cominciò nell’anno 473 del Nostro Ford. I Governatori fecero sgombrare l’isola di Cipro da tutti gli abitanti esistenti e la ricolonizzarono con una spedizione appositamente preparata di ventiduemila Alfa. Tutto l’equipaggiamento agricolo e industriale venne loro affidato ed essi furono lasciati liberi di dirigere i loro affari. Il risultato fu esattamente conforme alle previsioni tecniche. La terra non fu convenientemente lavorata; si ebbero scioperi in tutte le fabbriche; le leggi non erano rispettate, gli ordini venivano trasgrediti; tutti gli individui distaccati per attendere a qualche lavoro d’ordine inferiore, intrigavano di continuo per ottenere incarichi migliori, e tutti quelli di grado superiore controintrigavano per restare a ogni costo dove erano. In meno di sei anni divampò tra loro una guerra civile di prima classe. Quando diciannovemila dei ventiduemila furono tolti di mezzo, i superstiti unanimemente rivolsero una petizione ai Governatori Mondiali perché riassumessero il controllo dell’isola. Ciò che essi fecero. E questa fu la fine della sola società di Alfa che il mondo abbia mai visto.”
Il Selvaggio sospirò profondamente.
«La popolazione ottima» disse ancora Mustafà Mond «è modellata come un "iceberg"; otto noni al di sotto della linea d’acqua, un nono sopra.”
«E sono felici sotto la linea d’acqua?”
«Più felici che sopra. Più felici di questi vostri amici, per esempio.» E li accennò.
«Nonostante il loro lavoro ingrato?”
«Ingrato? Essi non lo trovano tale. Al contrario, lo amano. E’ leggero, è infantilmente semplice. Niente sforzo della mente o dei muscoli. Sette ore e mezzo di lavoro leggero e non estenuante, e poi la razione di "soma" e le copulazioni senza restrizione e il cinema odoroso. Che cosa potrebbero chiedere di più? Naturalmente» aggiunse «potrebbero chiedere qualche ora di meno. E naturalmente noi potremmo concedere loro qualche ora di meno. Tecnicamente sarebbe la cosa più semplice del mondo ridurre tutte le caste inferiori a lavorare tre o quattro ore al giorno. Ma sarebbero più felici per questo? No, non lo sarebbero. L’esperimento è stato tentato più di centocinquant’anni fa.
Tutta l’Irlanda fu messa alla giornata di quattro ore. Quale fu il risultato? Dei torbidi e un largo incremento nel consumo del "soma": ecco tutto. Quelle tre ore e mezzo di riposo extra furono così lontane dall’esser fonte di felicità, che la gente si vide costretta ad andarsene in vacanza per sfuggirle. L’Ufficio Invenzioni rigurgita di progetti per risparmiare la mano d’opera. Ce n’è migliaia.» Mustafà Mond fece un largo gesto: «E perché non li mettiamo in esecuzione? Per il bene dei lavoratori; sarebbe pura crudeltà infliggere loro un riposo eccessivo. E’ lo stesso con l’agricoltura. Noi potremmo fabbricare sinteticamente anche la minima particella dei nostri alimenti, se volessimo. Ma non lo facciamo; preferiamo lasciare un terzo della popolazione alla terra. Per il suo stesso bene, perché si richiede maggior tempo per ottenere degli alimenti dalla terra che da un’officina. D’altra parte dobbiamo pensare alla nostra stabilità. Noi non vogliamo cambiare. Ogni cambiamento è una minaccia per la stabilità. Questa è un’altra ragione per cui noi siamo poco disposti a utilizzare le nuove invenzioni. Ogni scoperta nel campo della scienza pura è sovversiva in potenza; anche la scienza deve talvolta esser trattata come un possibile nemico. Sì, anche la scienza».
La scienza? Il Selvaggio si accigliò. Egli conosceva questa parola. Ma che cosa significasse esattamente, egli non lo avrebbe saputo dire.
Shakespeare e i vecchi del "pueblo" non avevano mai menzionato la scienza, e da Linda egli aveva ricevuto soltanto le più vaghe indicazioni: la scienza era qualche cosa con cui si fabbricano gli elicotteri; qualche cosa che fa sì che ci si prenda gioco delle Danze del Grano, qualche cosa che impedisce di avere le rughe e di perdere i denti. Egli fece uno sforzo disperato per capire il pensiero del Governatore.
«Sì», diceva Mustafà Mond «questo è un altro articolo al passivo della stabilità. Non è solo l’arte a essere incompatibile con la stabilità; c’è anche la scienza. La scienza è pericolosa; noi dobbiamo tenerla con la massima cura incatenata e con tanto di museruola.”
«Cosa?» fece Helmholtz al colmo dello stupore. «Ma noi diciamo continuamente che la scienza è di tutti. E’ una sentenza ipnopedica.”
«Tre volte alla settimana da tredici a diciassette anni» intervenne Bernardo.
«E tutta la propaganda scientifica che svolgiamo al Collegio…”
«Sì, ma quale specie di scienza?» domandò sarcasticamente Mustafà Mond. «Voi non avete ricevuto cultura scientifica, e di conseguenza non potete giudicare. Io ero un ottimo fisico, ai miei tempi. Troppo bravo, bravo quanto basta per rendermi conto che tutta la nostra scienza è una specie di ‘re dei cuochi’, con una teoria ortodossa della culinaria che nessuno ha il diritto di mettere in dubbio, e una lista di ricette alla quale non si deve aggiungere nulla eccetto che dietro permesso speciale del capocuoco. Adesso il capocuoco sono io.
Ma una volta io ero un giovane sguattero curioso. Mi misi a fare un po’ di cucina a modo mio. Cucina eterodossa, cucina illecita. Un po’ di scienza reale, insomma.» Ci fu una pausa.
«Che cosa accadde?» domandò Helmholtz Watson.
Il Governatore sorrise. «Press’a poco ciò che sta per accadere a voialtri giovinotti. Sono stato sul punto di essere spedito in un’isola.”
Queste parole galvanizzarono Bernardo in una forma violenta e indecorosa. «Spedire me in un’isola?» Balzò in piedi, attraversò di corsa la stanza e si fermò gesticolando di fronte al Governatore. «Voi non potete spedirmi. Io non ho fatto nulla. Sono stati gli altri.
Giuro che sono stati gli altri.» Designò in atto d’accusa Helmholtz e il Selvaggio. «Oh! vi supplico, non mandatemi in Islanda. Prometto che farò ciò che devo fare. Accordatemi un’altra probabilità.» Le lacrime cominciarono a scorrere. «Ve lo ripeto, è colpa loro» singhiozzava.
«No in Islanda. Oh, scongiuro Vostra Forderia, scongiuro…» E in un parossismo di umiliazione si gettò in ginocchio davanti al Governatore. Mustafà Mond tentò di rialzarlo, ma Bernardo persistette nel suo atteggiamento: il flusso delle parole continuava a riversarsi inesauribile. Finalmente il Governatore dovette suonare per il quarto segretario.
«Conducetemi tre uomini» ordinò «e portate il signor Marx in una camera da letto. Somministrategli una buona vaporizzazione di "soma", poi mettetelo a letto e lasciatelo solo.”
Il quarto segretario uscì e tornò con tre inservienti gemelli in uniforme verde. Sempre smaniante e singhiozzante, Bernardo fu portato via.
«Si direbbe che sta per essere sgozzato» disse il Governatore mentre la porta si richiudeva. «Invece, se avesse il minimo buon senso, capirebbe che la sua punizione è in realtà una ricompensa. Lo si manda in un’isola. E’ come dire che lo si manda in un posto dove incontrerà la più interessante società di uomini e di donne che si possa mai trovare al mondo. Tutta gente che, per una ragione o per l’altra, ha preso troppo coscienza del proprio io individuale per adattarsi alla vita in comune. Tutta gente che non è soddisfatta dell’ortodossia, che ha delle idee indipendenti, sue proprie. Tutti coloro, in una parola, che sono qualcuno. Quasi quasi vi invidio, signor Watson.”
Helmholtz si mise a ridere. «Allora perché non siete in un’isola anche voi?”
«Perché, in fin dei conti, io ho preferito questo» rispose il Governatore. «Avevo facoltà di scelta; essere spedito in un’isola ove avrei potuto continuare a farmela con la scienza pura, ovvero essere ammesso al Consiglio dei Governatori con la prospettiva di essere promosso in tempo utile a un posto di Governatore Generale. Ho scelto questo ed ho abbandonato la scienza.» Dopo una breve pausa aggiunse: «Talvolta mi avviene di rimpiangere la scienza. La felicità è un padrone esigente, specialmente la felicità degli altri. Un padrone molto più esigente, se non si è condizionati per accettarla senza discutere, della verità.» Sospirò, tacque ancora, poi riprese con tono più vivace: «Insomma, il dovere è il dovere. Non si può consultare le proprie preferenze. Io m’interesso alla verità, io amo la scienza. Ma la verità è una minaccia, la scienza è un pericolo pubblico. E’ altrettanto pericolosa quanto è stata benefica. Ci ha dato il più stabile equilibrio della storia. Quello della Cina era disperatamente meno sicuro in confronto; anche i primitivi matriarcati non erano più stabili di quanto lo siamo noi. Grazie, ripeto, alla scienza. Ma noi non possiamo permettere alla scienza di disfare il suo buon lavoro.
Ecco perché limitiamo con tanta cura il campo delle sue ricerche, ecco perché quasi mi mandavano in un’isola. Noi non le permettiamo che di occuparsi dei problemi più immediati del momento. Tutte le altre imprese vengono col massimo impegno scoraggiate. E’ curioso» riprese dopo una breve pausa «leggere ciò che si scriveva all’epoca del Nostro Ford sul progresso della scienza. Sembrava ci si immaginasse che si potesse permetterle lo sviluppo indefinito, senza riguardo per le altre cose. Il sapere era il Dio più alto, la verità il valore supremo; tutto il resto era secondario e subordinato. E’ vero che le idee cominciavano a modificarsi, in quel tempo. Il Nostro Ford personalmente fece un grande sforzo per trasferire l’importanza della verità e della bellezza ai comodi e alla felicità. La produzione in massa esigeva questo trasferimento. La felicità universale mantiene in ordine gli ingranaggi; la verità e la bellezza non lo possono. E, beninteso, ogni volta che le masse si impadronivano del potere politico, era la felicità piuttosto che la verità e la bellezza che importava. Tuttavia, nonostante tutto, le ricerche scientifiche senza restrizione erano ancora permesse. Si continuava a parlare della verità e della bellezza come se fossero dei beni sovrani. Fino all’epoca della Guerra dei Nove Anni. Questa li obbligò a cambiare il loro tono, ve lo dico io. Qual è il senso della verità o della bellezza o del sapere quando le bombe ad antrace scoppiano intorno a voi? Fu allora che la scienza cominciò ad essere controllata, dopo la Guerra dei Nove Anni. La gente allora era disposta a lasciar controllare anche i suoi appetiti. Tutto, pur di vivere tranquilli.
Questo non è stato un bene per la verità, d’accordo, ma è stato eccellente per la felicità. Non si può avere nulla per nulla. La felicità bisogna pagarla. Voi la pagate, signor Watson; pagate perché vi state interessando troppo alla bellezza. Io m’interessavo troppo alla verità, e ho pagato anch’io.”
«Ma non siete andato in un’isola, voi» disse il Selvaggio rompendo un lungo silenzio.
Il Governatore sorrise. «E’ così ch’io ho pagato. Scegliendo di servire la felicità. Quella degli altri, non la mia. E’ una fortuna”
aggiunse dopo una pausa «che ci siano tante isole al mondo. Non so che cosa potremmo fare senza di esse. Vi ficcheremmo tutti nella camera asfissiante, suppongo. A proposito, signor Watson, vi piacerebbe un clima tropicale? Le Marchesi, per esempio, o Samoa? Oppure qualche cosa di più fresco?”
Helmholtz si alzò dalla sedia pneumatica.
«Mi piacerebbe un clima completamente cattivo» rispose. «Mi pare che si possa scriver meglio se il clima è cattivo. Se ci fosse molto vento e degli uragani, per esempio…”
Il Governatore fece un segno di approvazione.
«Apprezzo il vostro coraggio, signor Watson. Lo apprezzo enormemente.
Così come, ufficialmente, lo disapprovo.» Sorrise. «Che ne dite, delle isole Falkland?”
«Sì, credo che vadano bene» rispose Helmholtz. «E adesso, se permettete, vorrei andar a vedere che cosa è avvenuto al povero Bernardo.»
«Arte, scienza… mi sembra che abbiate pagato un prezzo considerevole per la vostra felicità» disse il Selvaggio quando furono soli. «Non c’è altro?”
«Ma sì, certo, c’è la religione» rispose il Governatore. «C’era una volta anche qualche cosa chiamata Dio, prima della Guerra dei Nove Anni. Ma dimenticavo; voi sapete bene cos’è Dio, suppongo.”
«Diamine…» Il Selvaggio esitò. Avrebbe voluto dire qualche cosa della solitudine, della notte, dell’altipiano che si stende pallido sotto la luna, del precipizio, della caduta nelle tenebre fonde, della morte. Avrebbe voluto parlare, ma non c’erano parole. Neppure in Shakespeare. Il Governatore, intanto, aveva attraversato da un angolo all’altro la stanza e stava aprendo una massiccia cassaforte incastrata nel muro tra gli scaffali dei libri. Il pesante portello si aperse. Frugando nell’oscurità disse: «E’ un soggetto che ha sempre avuto un grande interesse per me». Ne trasse un grosso volume nero.
«Voi non l’avete mai letto, per esempio.”
Il Selvaggio lo prese. «"La sacra Bibbia contenente l’Antico ed il Nuovo Testamento"» lesse ad alta voce sul frontespizio.
«E neppure questo»; era un piccolo libro senza copertina: "L’Imitazione di Cristo".
«Né questo.» Tese un altro volume: "Le varietà dell’esperienza religiosa di William James".
«Ne ho ancora molti» continuò Mustafà Mond rimettendosi a sedere.
«Un’intera collezione di vecchi libri pornografici. Dio in cassaforte e Ford negli scaffali!» Designò ridendo la sua biblioteca confessata, i palchetti di libri, le caselle piene di bobine per macchine di lettura e di rulli a impressione sonora.
«Ma se voi sapete bene chi è Dio, perché non ne parlate loro?» domandò il Selvaggio indignato. «Perché non date loro questi libri su Dio?”
«Per la stessa ragione per la quale non diamo loro "Otello": sono vecchi, rispetto a Dio sono indietro cento anni. Non è il Dio d’adesso.”
«Ma Dio non muta.”
«Gli uomini sì, però.”
«Che differenza c’è?”
«Tutta la differenza possibile al mondo» rispose Mustafà Mond. Si alzò di nuovo e si avvicinò alla cassaforte. «C’era una volta un uomo chiamato il cardinale Newman» disse. «Un cardinale» esclamò «era una specie di Arcicantore.”
«’Io, Pandolfo, cardinale della bella Milano…’  Ho letto qualche cosa sul loro conto in Shakespeare.”
«Sicuro. Ebbene, come stavo dicendo, c’era un uomo chiamato il cardinale Newman. Ah, ecco il libro» lo tirò fuori. «E già che ci sono, prendo anche questo. E’ di un uomo chiamato Maine de Biran. Era un filosofo, se sapete cos’è.”
«’Un uomo che sogna meno cose di quante ne esistano sulla terra e in cielo’ » rispose prontamente il Selvaggio.
«Benissimo. Tra un istante vi leggerò una di quelle cose di cui egli sognò veramente. Intanto sentite che cos’ha detto il vecchio Arcicantore.» Aperse il libro a un punto segnato con un pezzetto di carta, e cominciò a leggere. «’Noi non apparteniamo a noi stessi più di quanto ci appartenga ciò che possediamo. Non ci siamo fatti da noi e non possiamo avere la supremazia sopra noi stessi. Non siamo padroni di noi. Siamo proprietà di Dio. Non è la nostra felicità di considerare così le cose? E’ forse una felicità o una consolazione considerare che noi apparteniamo a noi stessi? Può essere così per coloro che sono giovani e felici. Essi possono credere ch’è una grande cosa poter tutto ordinare secondo la loro idea, così almeno suppongono: non dipendere da nessuno, non dover pensare a nulla che sia al di fuori della loro vista, non doversi preoccupare della continua riconoscenza, della continua preghiera, dell’obbligo continuo di riferire alla volontà di un altro ciò che fanno. Ma come il tempo passa, essi, come tutti gli uomini, si accorgeranno che l’indipendenza non è fatta per l’uomo, che è uno stato contro natura, che può bastare per un momento ma che non ci mette al sicuro definitivamente…’“
Mustafà Mond si fermò. Depose il primo libro, e, preso l’altro, ne sfogliò le pagine.
«Prendete questo esempio» disse e con la sua voce forte si rimise a leggere.
«’Un uomo invecchia, egli ha in sé il sentimento radicale della debolezza, dell’atonia, del malessere che accompagna il progredire dell’età e, provandolo, immagina di essere ammalato, calma i propri timori con l’idea che la sua condizione penosa sia dovuta a qualche causa particolare, dalla quale, come da una malattia, spera di guarire. Vane immaginazioni! La malattia è la vecchiaia ed è un’orribile malattia. Dicono che è la paura della morte e di ciò che segue alla morte che fa volgere gli uomini alla religione quando avanzano gli anni. Ma la mia propria esperienza mi ha dato la convinzione che, senza alcun terrore o effetto d’immaginazione, il sentimento religioso tende a svilupparsi a misura che noi invecchiamo; a svilupparsi perché le passioni essendosi calmate, l’immaginazione e la sensibilità essendo diventate meno eccitate o eccitabili, la nostra ragione è meno turbata nel suo esercizio, meno offuscata dalle immagini dei desideri e dalle distrazioni che solevano assorbirla; allora Dio emerge come da una nuvola; la nostra anima lo sente, lo vede, si volge versò di lui, sorgente d’ogni luce; si volge naturalmente e inevitabilmente; e poiché tutto si dissolve nel mondo delle sensazioni, la vita e la gioia hanno cominciato ad abbandonarci, l’esistenza fenomenica non è più sostenuta dalle impressioni esterne ed interne, noi sentiamo il bisogno di appoggiarci a qualche cosa che resta, a qualche cosa che non ci ingannerà, una realtà assoluta ed eterna. Sì, noi ci volgiamo inevitabilmente a Dio; perché il sentimento religioso è così puro, così dolce al cuore questa esperienza, che ci compensa di tutte le altre perdite.’“
Mustafà Mond chiuse il libro e si addossò alla poltrona. «Una delle numerose cose del cielo e della terra di cui questi numerosi filosofi non hanno sognato è questa» (agitò la mano) «noi, il mondo moderno.
‘Potete essere indipendenti da Dio soltanto mentre avete la giovinezza e la prosperità; l’indipendenza non può accompagnarvi sicuramente fino alla morte.’ Ebbene, ecco che noi abbiamo la giovinezza e la prosperità sino alla fine. Che ne risulta? Evidentemente, che possiamo essere indipendenti da Dio. ‘Il sentimento religioso ci compenserà di tutte le nostre perdite.’ Ma non ci sono per noi perdite da compensare; il sentimento religioso è superfluo. Perché dovremmo andare alla ricerca di un surrogato dei desideri giovanili, dal momento che i desideri giovanili non ci fanno mai difetto? di un surrogato delle distrazioni, dal momento che continuiamo a divertirci di tutte le vecchie pazzie sino alla fine? Che bisogno abbiamo di riposo se i nostri spiriti ed i nostri corpi continuano a gioire nell’attività? o di consolazione se abbiamo il "soma"? o di qualche cosa d’immutabile se c’è l’ordine sociale?”
«Allora voi credete che Dio non ci sia?”
«No, io credo che molto probabilmente ce n’è uno.”
«Allora perché…”
Mustafà Mond lo fermò. «Ma egli si manifesta in modi differenti ai diversi uomini. Nei tempi premoderni si manifestava come l’essere che è descritto in questi libri. Adesso…”
«Come si manifesta adesso?» domandò il Selvaggio.
«Ecco, si manifesta come un’assenza; come se non esistesse del tutto.”
«Questa è colpa vostra.”
«Dite che è colpa della civiltà. Dio non è compatibile con le macchine, con la medicina scientifica e con la felicità universale.
Bisogna fare la propria scelta. La nostra civiltà deve tener questi libri chiusi nella cassaforte. Sono osceni. La gente sarebbe scandalizzata se…”
Il Selvaggio l’interruppe. «Ma non è naturale sentire che c’è Dio?”
«Potreste ugualmente domandare se è naturale chiudere i pantaloni con la cintura automatica» disse il Governatore sarcasticamente. «Voi mi rammentate un altro di quei vecchi compari chiamato Bradley. Costui definiva la filosofia come l’arte di trovare una cattiva ragione a ciò che si crede d’istinto. Come se si credesse qualche cosa d’istinto! Si credono le cose perché si è stati condizionati a crederle. Il trovare delle cattive ragioni a ciò che si crede per effetto d’altre cattive ragioni, questa è la filosofia. La gente crede in Dio perché è stata condizionata a credere in Dio.”
«Nonostante tutto questo,» insistette il Selvaggio «è naturale credere in Dio quando si è soli, completamente soli di notte, e si pensa alla morte…”
«Ma la gente non è mai sola al giorno d’oggi» disse Mustafà Mond. «Noi facciamo sì che gli uomini detestino la solitudine e disponiamo la loro vita in tal modo che sia loro quasi impossibile conoscerla mai.”
Il Selvaggio assentì tristemente. A Malpais aveva sofferto perché lo avevano escluso dalle attività comuni del "pueblo", nella civile Londra soffriva perché non poteva mai evadere da queste attività comuni né mai essere tranquillamente solo.
«Vi ricordate quel passo del "Re Lear"?» disse finalmente il Selvaggio. «’Gli Dei sono giusti, e dei nostri amabili vizi fanno degli strumenti per torturarci… il posto oscuro e corrotto dove ti concepì gli costò gli occhi’ ed Edmondo risponde (ricordate? è ferito, è morente): ‘Tu hai detto bene, è la verità. La ruota ha fatto il suo giro completo; eccomi’. Cosa ne dite voi? Non sembra che ci sia un Dio che dirige le cose, punisce e ricompensa?”
«Sembra?» interrogò a sua volta il Governatore. «Voi potete abbandonarvi a un buon numero di amabili vizi con una neutra senza correre il rischio di farvi strappare gli occhi dall’amante di vostro figlio. ‘La ruota ha fatto il suo giro completo, eccomi.’ Ma dove sarebbe Edmondo ai giorni nostri? Seduto in una poltrona pneumatica, colle braccia attorno alla vita di una ragazza, masticando le tavolette di gomma di ormoni sessuali e guardando un film odoroso. Gli Dei sono giusti, non c’è dubbio. Ma il loro codice di leggi è dettato, in ultima analisi, dalla gente che organizza la società; la Provvidenza riceve la sua parola d’ordine dagli uomini.”
«Ne siete sicuro?» domandò il Selvaggio. «Siete proprio sicuro che Edmondo, in questa poltrona pneumatica, non è stato punito così severamente come l’Edmondo ferito e sanguinante a morte? Gli Dei sono giusti. Non hanno usato dei suoi amabili vizi come d’uno strumento per degradarlo?”
«Degradarlo da quale stato? Come cittadino felice, assiduo al lavoro, consumatore di beni, egli è perfetto. Certo, se voi scegliete qualche altro modello diverso dai nostri allora forse potreste dire che è stato degradato. Ma bisogna attenersi a una serie di postulati. Non si può giocare al Golf elettromagnetico seguendo le regole della Moscacieca Centrifuga.”
«Ma il valore risiede nella volontà particolare» disse il Selvaggio.
«Esso mantiene la stima e la dignità tanto là dove sono preziose in se stesse quanto in colui che le pregia.”
«Via, via» protestò Mustafà Mond «questo è correre un po’ troppo lontano, non vi pare?”
«Se vi lasciate andare a pensare a Dio, non vi lascereste degradare da amabili vizi. Avreste una ragione per sopportare pazientemente le cose, per fare le cose con coraggio. L’ho visto con gli Indiani.”
«Ne sono convinto» disse Mustafà Mond. «Ma noi non siamo Indiani. Un uomo civilizzato non ha nessun bisogno di sopportare alcunché di particolarmente sgradevole. E quanto a fare le cose, Ford lo preservi dall’avere mai simile idea in testa! Tutto l’ordine sociale sarebbe sovvertito se gli uomini si mettessero a fare le cose di loro propria testa.”
«E la rinuncia allora? Se credeste in Dio, avreste una ragione di rinuncia.”
«Ma la civiltà industriale è possibile soltanto quando non ci sia rinuncia. Concedersi tutto sino ai limiti estremi dell’igiene e delle leggi economiche. Altrimenti le ruote cessano di girare.”
«Avreste una ragione di castità!» disse il Selvaggio arrossendo leggermente mentre pronunciava queste parole.
«Ma la castità vuol dire passione, vuol dire nevrastenia. E passione e nevrastenia vogliono dire instabilità. E instabilità vuol dire fine della civiltà. Non si può avere una civiltà durevole senza una buona quantità di amabili vizi.”
«Ma Dio è la ragione d’essere di tutto ciò che è nobile, bello, eroico. Se voi aveste un Dio…”
«Mio caro, giovane amico» disse Mustafà Mond «la civiltà non ha assolutamente bisogno di nobiltà e di eroismo. Queste cose sono sintomi d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata come la nostra nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed eroico. Bisogna che le condizioni diventino profondamente instabili prima che l’occasione possa presentarsi. Dove ci sono guerre, dove ci sono giuramenti di fedeltà condivisi, dove ci sono tentazioni a cui resistere, oggetti d’amore per i quali combattere o da difendere, là certo la nobiltà e l’eroismo hanno un peso. Ma ai nostri giorni non ci sono guerre. La massima cura è posta nell’impedirci di amare troppo qualsiasi cosa. Non c’è nulla che rassomigli a un giuramento di fedeltà collettiva; siete condizionati in modo tale che non potete astenervi dal fare ciò che dovete fare. E ciò che dovete fare è, nell’insieme, così gradevole, un tal numero d’impulsi naturali sono lasciati liberi di sfogarsi, che veramente non ci sono tentazioni alle quali resistere. E se mai, per mala sorte, avvenisse in un modo o nell’altro qualche cosa di sgradevole, ebbene, c’è sempre il "soma" che vi permette una vacanza, lontano dai fatti reali. E c’è sempre il "soma" per calmare la vostra collera, per riconciliarvi coi vostri nemici, per rendervi paziente e tollerante. Nel passato non si potevano compiere queste cose che facendo grandi sforzi e dopo anni di penoso allenamento morale. Adesso si mandano giù due o tre compresse di mezzo grammo, e tutto è a posto. Tutti possono essere virtuosi, adesso. Si può portare indosso almeno la metà della propria moralità in bottiglia. Il Cristianesimo senza lacrime, ecco che cos’è il "soma".
«Ma le lacrime sono necessarie. Non vi ricordate ciò che dice Otello? ‘Se dopo ogni tempesta vengono tali bonacce, allora che i venti soffino sino a che abbiano risvegliato la morte!’ C’è una storia che usava raccontarci uno dei vecchi Indiani sulla Ragazza di Matsaki. I giovanotti che desideravano sposarla dovevano passare una mattina a zappare nel suo giardino. La cosa sembrava facile, ma c’erano delle mosche e delle zanzare tutte stregate. La maggior parte dei giovani non poteva assolutamente sopportare i morsi e le punture. Ma colui che ci riusciva, otteneva in premio la ragazza.”
«Graziosa! Ma nei paesi civili» disse il Governatore «si possono avere delle ragazze senza zappare per loro; e non ci sono mosche o zanzare che vi pungono. Ce ne siamo sbarazzati già da secoli.”
Il Selvaggio assentì, accigliato. «Ve ne siete sbarazzati, già è il vostro sistema. Sbarazzarsi di tutto ciò che non è gradito, invece di imparare a sopportarlo. Resta a sapere se è spiritualmente più nobile subire i colpi e le frecce dell’avversa fortuna, o prendere le armi contro un oceano di mali e opporsi ad essi sino alla fine… Ma voi non fate né l’una né l’altra cosa. Voi né sopportate né affrontate.
Abolite semplicemente i colpi e le frecce. E’ troppo facile.”
Tacque improvvisamente, pensando a sua madre. Nella sua camera del trentasettesimo piano, Linda aveva galleggiato in un mare di luci cantanti e di profumate carezze, se n’era andata galleggiando fuori dello spazio, fuori del tempo, fuori della prigione dei suoi ricordi, delle sue abitudini, del suo corpo vecchio e pingue. E Tomakin, l’ex- Direttore delle Incubatrici e del Condizionamento, Tomakin era in vacanza, in vacanza lontano dalla sua umiliazione e dal suo dolore, in un mondo dove non poteva sentire quelle parole, quel riso beffardo, dove non poteva vedere quella faccia repulsiva, sentirsi quelle braccia molli e flaccide intorno al collo, in un mondo splendido…
«Ciò che vi abbisogna» riprese il Selvaggio «è qualche cosa che implichi il pianto, per cambiare. Nulla costa abbastanza qui.”
(«Dodici milioni e mezzo di dollari’ aveva precisato Enrico Foster, quando il Selvaggio gli aveva detto ciò. ‘Dodici milioni e mezzo di dollari': era il costo del nuovo Centro di Condizionatura. ‘Non un centesimo di meno.’) «’Esporre ciò che è mortale e indifeso al caso, alla morte e al pericolo, fosse pure un guscio.’  Non è qualche cosa questo?”
domandò guardando Mustafà Mond. «Anche astraendo da Dio; e tuttavia Dio ne costituirebbe pur sempre una ragione. Non è qualche cosa vivere pericolosamente?”
«E’ molto» rispose il Governatore. «Gli uomini e le donne hanno bisogno che si stimolino di tanto in tanto le loro capsule surrenali.”
«Cosa?» fece il Selvaggio che non capiva.
«E’ una delle condizioni della perfetta salute. E’ per questo che abbiamo reso obbligatorie le cure S.P.V.”
«S.P.V.?”
«Surrogato di Passione Violenta. Regolarmente, una volta al mese, irrighiamo tutto l’organismo con adrenalina. E’ l’equivalente fisiologico completo della paura e della collera. Tutti gli effetti tonici dell’uccisione di Desdemona e del fatto che è uccisa da Otello, senza nessuno degli inconvenienti.”
«Ma io amo gli inconvenienti.”
«Noi no» disse il Governatore. «Noi preferiamo fare le cose con ogni comodità.”
«Ma io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato.”
«Insomma» disse Mustafà Mond «voi reclamate il diritto di essere infelice.”
«Ebbene, sì» disse il Selvaggio in tono di sfida «io reclamo il diritto d’essere infelice.”
«Senza parlare del diritto di diventar vecchio e brutto e impotente; il diritto d’avere la sifilide e il cancro; il diritto d’avere poco da mangiare; il diritto d’essere pidocchioso; il diritto di vivere nell’apprensione costante di ciò che potrà accadere domani; il diritto di prendere il tifo; il diritto di essere torturato da indicibili dolori d’ogni specie.”
Ci fu un lungo silenzio.
«Io li reclamo tutti» disse il Selvaggio finalmente.
Mustafà Mond alzò le spalle. «Voi siete il benvenuto» rispose.


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