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La Violoncellista di Michael Krüger e la decadenza delle Arti – recensione di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 13 marzo 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

La Violoncellista

Michael Krüger e la decadenza delle Arti

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

La Violoncellista di Michael Krüger e la decadenza delle Arti – recensione di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
La violoncellista è uno degli ultimi lavori di Michael Krüger, un lavoro semplicemente entusiasmante, ma che la critica italiana, quella che si rifugia nell’intellighenzia pecoreccia, non ha tenuto in considerazione lasciando che passasse quasi del tutto inosservato. Michael Krüger è nato nel 1943 a Wittgendorf, in Sassonia; oggi è responsabile della Casa editrice Hanser e della rivista «Akzente». Le sue opere proposte in Italia sono: Perché Pechino? (Einaudi, 1987), Il ritorno di Himmelfarb (Frassinelli, 1995), La violoncellista (Einaudi, 2002), Di notte tra gli alberi (Donzelli, 2002), Poco prima del temporale (Frassinelli, 2005), Commedia torinese (Einaudi, 2007), Il coro del mondo. Poesie 2001-2010 (Mondadori, 2010).

La violoncellista è ottimo lavoro, indagine profonda del nostro mondo avviato verso una lenta quanto inesorabile decomposizione artistica. Le idee sono frammenti che non reggono il peso della storia, della società nuova che sposta il suo interesse verso il facile, il commerciale, il banale. L’idea è seriale, prodotta da uno spaventoso organismo statale e privato che vuole tutti gli uomini uguali fra di loro, annullando così in loro l’individualismo, lo spirito critico, la fantasia, l’idea stessa di poter pensare di avere delle idee.
Michael Krüger è spirito affine a quello di Bertolt Brecht: la sua prosa è sospesa in un lirismo incantato, scarno, provocatorio. La violoncellista è soprattutto poesia in forma di romanzo. Krüger mette a confronto il vecchio ideale e lo reinterpreta attraverso la voce di Judit, ventitreenne violoncellista figlia di una vecchia fiamma del protagonista del romanzo. Il cinquantenne compositore, afflitto da ipocondria, lacerato da due opposte vocazioni, non può fare a meno di trovare in Judit una finta àncora di salvezza, forse un indizio che rimetta in gioco la sua esistenza divisa fra l’amore per la musica d’avanguardia, impopolare e assai poco redditizia ma profondamente nobile, e l’amore di scrivere jingle per serial televisivi. Non sa decidersi, è un uomo combattuto che vorrebbe dedicare tutto sé stesso alla produzione avanguardistica, ma si trova a dover fare i conti con il mercato musicale che riesce ad accettare solo ciò che è seriale. La vita del compositore è negata nel bisogno di produrre “in serie” per accontentare la necessità di sfamarsi, mentre il suo desiderio più forte sarebbe quello di rivolgere tutta l’attenzione verso l’arte senza compromessi. Ed ecco Judit, una ragazza giovane bella fresca, appena ventitreenne: è la figlia di Maria, una cantante ungherese con la quale, negli anni giovanili a Budapest, ha vissuto una breve ma intensa relazione. Il cinquantenne compositore se la trova fra i piedi, all’improvviso, e non sa perché sia venuta a Monaco e si sia piazzata in casa sua. Chi o cosa pretende Judit? Judit gli spiega che è da lui perché intende perfezionare l’arte del violoncello; tuttavia il compositore non sa se credere a questa verità-bugia che gli viene spiegata senza troppi giri di parole. Eppure Judit sembra essere sincera, o almeno, forte della sua giovinezza ancora non troppo lacerata dagli astuti mali della società, potrebbe dire la verità. Il sospetto si insidia nel compositore: non sarà mica (anche) sua figlia? Non lo sa. Ma non può fare a meno di innamorarsi, almeno platonicamente, di questa giovane che è troppo bella, bella come la sua Maria di tanti anni fa, quella Maria che era anche l’ideale di quando era giovane, ideale che non poteva essere svenduto per un jingle televisivo. Il violoncello di Judit diventa umano, ogni nota è un grido mortale di una bellezza che il compositore aveva dimenticato, ed è Judit che lo suona, forse sua figlia.
La violoncellista è ritratto feroce e critico nei confronti delle istituzioni culturali della Germania moderna che vive la decadenza inesorabile delle arti. Michael Krüger riflette su memoria individuale, gulag, valori occidentali, su quel sentimento di nostalgia per le cose dell’Est che in Germania va sotto il nome di Ostalgie, conducendo una sottile autolesionistica meditazione sull’impossibilità di tenere (e mettere) in piedi rapporti autentici; l’amore, l’amicizia, la solidarietà, persino il Comunismo sono solo maschere ambigue e sfuggenti che riflettono un vivacchiare ottuso, spesso opportunistico, all’interno di un quotidiano ripetitivo, quasi rituale, perfettamente seriale. L’autore rievoca sullo sfondo del romanzo gli inquietanti fantasmi di una impossibile coerenza: Anna Achmatova, Ossip Mandeľstam, Paul Celan, sono sullo sfondo, invitano alla coerenza, ad abbandonare la facilità seriale dei jingle, ma il compositore è dilaniato. Questi fantasmi sono ombre evocate dalla cattiva coscienza di chi ha creduto nel socialismo, e il protagonista, ormai, dispera di poter credere ancora in un qualche ideale, anche se la tentazione è forte, quella di possedere ancora il fuoco sacro amorevole per l’avanguardia, per Judit-Maria e il suo violoncello tanto tanto umano.
Un romanzo esemplare che la critica più affermata dovrebbe tenere in debita considerazione e approfondire seriamente invece di spendersi a favore della finta arte seriale.
La violoncellista di Michael Krüger , da leggere, comprare, custodire. Da regalare anche, a chi ama la vera Letteratura. Assolutamente.

La violoncellista – Michael Krüger – I coralli – Einaudi – Traduzione di Palma Severi – pp. 194 – 12,50 Euro

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