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Le passé

Creato il 19 giugno 2013 da Ussy77 @xunpugnodifilm

le-passe-poster-fr-deIl passato è passato?

L’acrobazia narrativa di Farhadi colpisce ancora. Dopo Una separazione, il regista iraniano si presenta a Cannes 66 con una pellicola che sta addosso ai suoi personaggi e si fa opprimente e rivelatrice.

Ahmad arriva a Parigi da Teheran. La moglie Marie ha bisogno della sua presenza per formalizzare burocraticamente il divorzio. Ahmad, diversamente da come aveva chiesto, viene invitato a dormire a casa per poter parlare con Lucie, la figlia più grande di Marie. Qui Ahmad scopre che Marie vive con Samir, il compagno la cui moglie è in coma da otto mesi.

Il racconto implode e non lascia respiro.  Le passé chiude vicende e personaggi all’interno di due case,di una lavanderia e alla fine in una camera d’ospedale, nella quale Farhadi cerca la commozione e ribalta la tematica narrativa che fino a quel momento aveva perseguito senza remore: l’importante è dimenticare il passato. Quel passato che incatena Marie, donna fragile e controversa, Ahmad, l’ex-marito iraniano tornato a Parigi per firmare le carte del divorzio, e Samir, nuovo compagno di Marie con un figlio a carico e una moglie in coma, che a causa della depressione ha tentato otto anni prima il suicidio. Le vicende si accavallano e ogni scena nasconde una rivelazione, che cancella quello che lo spettatore credeva assodato nell’inquadratura precedente. È qui che Farhadi costruisce la sua pellicola non ostentando nessuna scena liberatoria, anzi rinchiudendo il film nell’esclusività del quadro cinematografico, nel conflitto di primi piani e campi-controcampi e nella modificazione continua delle soggettive. Diversamente da Una separazione, Le passé non esibisce un climax emotivo e quella tensione psicologica costantemente alta. Eppure si respira affannosamente un presentimento angosciante. La premonizione di un imminente sciagura.

Le passé conferma l’abilità di Farhadi nel costruire personaggi empatici e la sua precisione nella scrittura, che svela, annebbia e confonde, ma appassiona in modo incontrovertibile. La capacità del pluripremiato regista iraniano è quella di mantenere lo spettatore inchiodato alla poltrona, perché labilmente (quasi sussurrando) e senza particolare enfasi inserisce nei dialoghi dettagli e confessioni, elementi che a una visione superficiale potrebbero far pensare a una sceneggiatura sovrabbondante ed eccessivamente gonfia di colpi di scena. Ma non è così perché Farhadi, entrando nelle stanze e spiando gli occupanti (probabilmente in modo più invasivo rispetto a Una separazione, che a volte prediligeva il voyeuristico buco della serratura), ne racconta relazioni ed esplica la tesi: per guardare avanti nelle nostre esistenze è indispensabile prendere atto del passato (e del presente), cercando non di rimuoverlo, ma affrontandolo. Il tutto è raccontato in una Parigi periferica e irriconoscibile, piovosa e spigolosa.

Naturalmente Farhadi si fa anche simbolico e al “netto” della pellicola si ripensa a quella scritta in sovraimpressione a inizio film: quel tergicristallo che prova a “cancellare” il titolo. Non riuscendoci, quest’ultimo si sbiadisce, ma è metaforicamente presente in tutta la durata del film. Rispetto a Una separazione, Farhadi fa un impercettibile passo indietro. Dettagli, che costruiscono una carriera cinematografica illuminante e coinvolgente.

Voto: ****


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