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Ma la guerra civile in Siria?

Creato il 09 giugno 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Dopo più di quattro anni di guerra civile, qual è la situazione in Siria? L’Occidente è indeciso sul da farsi mentre sul terreno si scontrano tra loro lealisti, ribelli, Curdi e Stato Islamico.

Cinquantasette mesi e oltre 220.000 morti dopo lo scoppio delle proteste anti-regime in Siria, la guerra civile sembra lontana da una soluzione. Ma alcuni segnali sembrano prefigurare un epilogo a tinte fosche per un conflitto nato da proteste democratiche nel contesto della Primavera Araba e trasformatosi nel volgere di pochi anni in terreno fertile per le ambizioni califfali dello Stato Islamico. L’esercito lealista è in rotta, l’Occidente tentenna e le milizie islamiche avanzano inesorabilente verso Damasco.

Siria: cronologia di una guerra civile

Quando lo stallo si protrae per così tanto tempo, può risultare utile ripercorrere a ritroso le tappe che l’hanno generato. E un riassunto esaustivo del conflitto civile che interessa la Siria non può prescindere dai fatti che scatenarono la rivolta. Era il 15 marzo 2011 quando, sull’onda degli eventi della Primavera Araba, venivano organizzate le prime manifestazioni contro il regime che inizialmente non riscossero molto successo, per paura della repressione delle forze di sicurezza. La repressione, infatti, non tardò a farsi sentire nelle città di Dar’a e Latakia, le più attive nella fase iniziale. A seguito della risposta violenta della dittatura scesero in piazza migliaia e migliaia di manifestanti in tutte le principali città del Paese per chiedere a gran voce che il Presidente Bashar al-Assad lasciasse il potere, ottenendo in risposta quanche concessione e il soffocamento nel sangue del dissenso. Nei primi mesi si contano già più di mille morti e migliaia di attivisti incarcerati, mentre operazioni dell’esercito mirate a colpire le roccaforti della protesta si alternano a manifestazioni pro-regime, ampiamente partecipate e riprese dalla TV di Stato.

Siria

Photo credit: watchsmart / Foter / CC BY

Nel giugno del 2011 ha luogo la prima svolta, quella che dà il via all’escalation: alcuni gruppi di manifestanti saccheggiano le caserme e, una volta ottenute le armi, conducono azioni contro i poliziotti e l’esercito stesso: L’esercito risponde con carri armati ed elicotteri. Il malcontento ha trovato la sua volvola di sfogo nella guerra civile. Di lì a poco cominceranno le diserzioni tra le fila delle forze armate: nasce l’Esercito Siriano Libero, primo di una lunga serie di milizie armate fondate, fuse o sciolte nei mesi a venire e destinate a seminare il caos in Siria. L’ESL è l’unica tra le formazioni armate a riconoscere l’autorità del Concilio Nazionale Siriano, organismo politico fondato ad Istambul tra mille difficoltà per unire in un fronte comune la variegata ed eterogenea galassia di tutte le opposizioni ad al-Assad.

A nulla servono le modifiche alla Costituzione, approvate da referendum, e la liberazione di più 700 prigioniri politici: il conflitto assume toni di scontro religioso quando si verificano violenze tra cittadini di fedi diverse. In particolare i sunniti (la maggioranza del Paese) si scontrano con gli alawiti, corrente dello sciismo diffusa sulla costa meditterranea della Siria e nel vicino Libano, minoranza a cui appartiene lo stesso Presidente. In ragione di queste differenze il conflitto valica le frontiere interessando le potenze del vicinato e diventa così un conflitto regionale, una guerra per procura che coinvolge da una parte Hezbollah libanesi e l’Iran (sciiti, in sostegno al regime) e dall’altra i Paesi sunniti dalla parte dei ribelli (in particolare Turchia, Arabia Saudita, Qatar).

Curdi, Fronte al-Nusra e ISIS: caos in Siria

I primi ad approfittare della situazione caotica della Siria sono i Curdi. Sotto la guida politica del Comitato Suremo Curdo, con il sostegno dei partiti PDK, UPK e PKK e della popolazione locale di origine curda, l’Unità di Potezione Popolare (YPG) libera in poche settimane e con pochissime perdite il Kurdistan siriano, incontrando poca resistenza da parte dell’Esercito regolare. Sul campo i Curdi si comportano come alleati con i ribelli, pur mantenendo una certa diffidenza per le infiltrazioni jihadiste tra le loro fila.

Tra i gruppi armati di opposizione alla dittatura, infatti, cominciano a comparire formazioni di dichiarata ispirazione jihadista e determinati ad instaurare forme di controllo del territorio basate sull’applicazione della sharia. Il Fronte al-Nusra viene fondato nel 2012 come braccio armato ufficiale di al-Qaeda in Siria riconosciuto da Ayman al-Zawahiri. Inizialmente lotta al fianco dei ribelli e si distingue per metodi di lotta più violenti, come attentati suicidi con autobomba. Altre decine di formazioni dell’estremismo islamico, composte anche da poche decine di combattenti, affollano il panorma di milizie armate che sfruttano il clima di anarchia regnante nel Pease a propri scopi, che siano religiosi o più prettamente criminali.

Ma l’evento più significativo dell’ultima fase, quello che minaccia di imporre una svolta nel conflitto in una direzione inattesa, è la comparsa dello Stato Islamico in Siria. Nato da un lucido progetto (partorito da Haji Bakr e svelato da Der Spiegel) che mirava ad instaurare uno Stato di polizia a partire da una rete di spionaggio capillare, il Califfato di al-Baghdadi si è fatto strada inosservato (facendo proseliti alle spese dello stesso fronte al-Nusra di cui inizialmente era alleato), sfruttando il disordine generalizzato nei territori contesi al governo dai ribelli per poi uscire allo scoperto solo nel momento in cui le forze gli avrebbero permesso di avere la meglio nelle città in cui si era infiltrato. Una volta avviata l’occupazione di parte della Siria, le milizie del Califfo si sono poi dedicate all’annessione di parte dell’Iraq e, nel corso dell’offensiva degli ultimi mesi, sono giunte a controllare il sito archeologico di Palmyra. Ormai quasi metà del territorio precedentemente controllato da Damasco è ora sotto la bandiera nera.

L’Occidente e la Siria: intervenire? Con chi?

L’esercito regolare è in evidente difficoltà. Lo testimonierebbe la richiesta d’aiuto lanciata dal regime all’Occidente in vista dell’eventualità (poi verificatasi) della conquista del sito di Palmyra da parte dell’IS. La verità è che le forze armate non sono più in grado di garantire la difesa delle proprie posizioni: la scarsità di munizioni e il logoramento dopo anni di conflitto di fanno sentire. Da mesi i soldati non ricevono più paga. La coesione dei reparti è al limite: potrebbe essere solo una questione di tempo prima che al-Assad sia costretto a capitolare, ed è più probabile, dati i rapporti di forza tre le varie forze in campo, che a dare il colpo di grazia sia proprio lo Stato Islamico, ormai non molto lontano da Damasco.

Una situazione a cui si è arrivati per colpe da ascriversi in parte allo stesso dittatore, cieco al punto da rifiutare ogni compromesso diplomatico per uscire dallo stallo, e in parte alle potenze occidentali, sempre sul punto di intervenire in qualche modo per tentare di risolvere la situazione (come nel settembre 2013) ma mai effettivamente decise a giocare un ruolo di primo piano. Barack Obama ha inaugurato un’offensiva aerea che può conseguire solo risultati limitati ed effimeri, se non sostennuta da una forza di terra. Ma a chi affidarsi per questo ruolo? Se armare i curdi può essere controproducente (c’è il rischio che rivolgano le armi ottenute contro la Turchia e l’Iraq, alleati USA, per liberare territori rivendicati), collaborare con le miriadi di milizie ribelli (islamiste o laiche) è impraticabile. Scendere a compromessi con al-Assad può sembrare un “patto col diavolo”, ma gli eventi (in particolare la prospettiva che l’IS abbia la meglio) potrebbero spingere in questa direzione: già si registrano da tempo aperture del Segretario di Stato USA John Kerry nei confronti del tiranno che sin dall’inizio l’Occidente ha isolato alla luce delle violente repressioni attuate nei confronti della popolazione.

Siria: dov’è l’Europa?

In ogni caso la Siria rischia di trasformarsi (o forse lo è già) in un’altra Libia, un territorio franco senza legge in cui prospera un mix esplosivo di estremismo religioso, guerra per bande e organizzazioni criminali dedite ad ogni tipo di traffico. L’Unione Europea ne sta già subendo le conseguenze (la guerra ha già generato più di 9 milioni di sfollati, diretti verso i Paesi vicini e, in parte, verso l’Europa attraverso la Libia o la Grecia) ma, impegnata in uno scontro con il populismo sul tema delle quote, non prende posizioni univoche e risolutive in relazione a una crisi che si svolge a pochi passi dai suoi confini.

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