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RACCOLTA DIFFERENZIATA (20) - vecchi racconti inediti del Nick

Creato il 19 marzo 2011 da Zioscriba
RACCOLTA DIFFERENZIATA (20) - vecchi racconti inediti del Nick

SOFFITTO A QUADRETTONI

Il giorno del mio sedicesimo compleanno toccai il sedere a uno di quattordici.
In realtà glielo sfiorai soltanto con la punta delle dita. Fu un impulso più forte di me, un raptus provocato da quel ragazzino, che sembrava una bella figa e portava il caschetto biondo sfumato sul collo alla francesina. E sculettava femmineo. Comunque glielo sfiorai soltanto, lo giuro, glielo sfiorai con le falangette della mia mano destra, quel suo posteriore di merda. Nel corridoio dell’istituto tecnico durante l’intervallo. Ma lui andò a casa a dirlo ai genitori di merda. Così quelli piombarono a scuola come falchi e vennero a parlarne con Don Bega di religione. Che a sua volta corse a fare la spia dal preside. Invece di vedersela con me, lo scarafaggio grigionero, finto amico di noi studenti.
Allora il preside convocò i miei, di genitori.
Per farla breve, onde evitare guai dovetti assecondare tutti quanti e fingere le cose che dicevano loro – un mezzo esaurimento nervoso, confusioni adolescenziali di passaggio e cagate così, e accettare di finire tra le grinfie di uno strizzaportafogli, cioè il dirimpettaio laico, come millantatore ideologico, dello scarafaggio ciellino Don Bega. Tanto pagavano loro. Per la paura che fossi frocio.
Il problema fu che lo strizzaportafogli mi stette subito sul cazzo. Aveva il suo studio in una gran villa sperduta in mezzo alle colline. La prima volta che mi ci portarono mi disse che alcuni pazienti per comodità lo consideravano un padre. Altri un amico. E che potevo scegliere. A me francamente sembrava un idiota. Con una barba da fesso. Però non glielo dissi. Mi chiese quasi subito se ero frocio, dicendo che tanto c’era il segreto professionale, che è come quello confessionale, anzi, ancora più rischioso, perché quando tu parli, oltre ad ascoltare, questo qui scrive. Certe volte scrive in continuazione. Che poi magari è la lista della roba da portare in lavanderia. Segreto professionale staminchia, pensai. E poi frocio lo dici a tuo zio. Anche questo però lo pensai solamente, mica lo dissi.
Che poi era vero che non ero frocio. A me quello stronzetto biondino mi piaceva perché sembrava una fighetta. Era lui il frocio, cazzo. Ma nel frattempo dovevo inventarmi delle minchiate da raccontare allo strizza. Era dura, ve l’assicuro, riempire un’ora sdraiato su quel cazzo di lettino nella bella villa dello strizzaportafogli, mentre l’idiota con la barba da fesso fumava la pipa spenta per darsi un tono da Freud arricchito. Centomila a seduta senza ricevuta, porcodio. Mi faceva venire la nausea. Per riempire un’ora dallo strizzaportafogli qualche minchiata me la dovevo inventare.
Potevo stare anche dodici minuti a guardare i volumi della sua libreria. E altri otto a rimirare le geometrie quadrettate del soffitto. Righe bianco sporco larghe due centimetri su uno sfondo bianco candido. Ragnatele di panna su latte andato a male. Ma avanzavano pur sempre quaranta minuti di tortura psicologica in quel suo studio che puzzava di chiuso peggio di una tomba. Oltretutto era pure primavera. Fuori sentivo i bambini giocare liberi nei prati. Qualcosa gli dovevo raccontare, al fottutissimo strizza. Capirete, centomila a seduta senza ricevuta. Dovevo almeno vendicarmi imbottendolo di cazzate. Cose tipo sogni strani o ricordi dell’infanzia, come quegli imbecilli nei film americani. Che si sentono tanto moderni e intelligenti perché invece di dare cento dollari all’anno a un fasullo di prete ne danno mille al mese a un fasullo di strizzaportafogli. Fanculo. Insomma dovevo inventarmi un sacco di cazzate depistanti. Una marea, di cazzate. Un pomeriggio che ero in vena gli ho detto che da piccolo una volta ho buttato il triciclo dal balcone apposta per ammazzare l’inquilina del piano di sotto che mi aveva battuto a rubamazzetto, ma l’ho mancata per un soffio. E che avevo una bambola che torturavo e picchiavo e scaraventavo contro il muro sperando con tutta la mia anima che sentisse male per davvero. E che un giorno ho fatto lo sgambetto a mia nonna sulle scale e l’ho fatta cadere ma purtroppo non è morta. E che un’altra volta ho preso a calci un gattino perché non mi andava giù il nome che gli aveva dato quella troia della contadinella sua padrona. Un gattino non lo puoi chiamare Elvis. Altrimenti io vengo lì e lo prendo a calci in culo. E poi gli dissi che mi piaceva molto masturbarmi pensando di essere un topo. Cose così. E lo strizzaportafogli prendeva appunti. Analitico e imperturbabile. Ma io delle volte inventavo, esageravo un pochettino. Per esempio, delle cinque cose di quel pomeriggio, tre erano vere ma due no. Comunque più che altro mi regolavo così. Menavo il can per l’aia e intanto controllavo se sugli scaffali c’erano più volumi rossi o più volumi blu. Erano di più quelli rossi. Non cambiavano mai di posto e non se ne aggiungevano mai di nuovi. Secondo me lo strizza non ne aveva mai letto neanche uno. Però in compenso qualcuno li spolverava. Probabilmente una colf negra sottopagata in nero. Il troietto biondo alla fine l’ho inculato nei cessi. Così impara a sculettare e a fare la fighetta. Spero che adesso gli sia ben chiaro che il frocio non sono io, ma lui. Che ci vada lui, adesso, da qualche cazzo di strizzaportafogli. Centomila a seduta senza ricevuta. Ore e ore su quel cazzo di lettino. Un’esperienza talmente assurda che per poco non do fuori di matto. Mi sono limitato a dargli fuoco alla villa. Dopo qualche mese, quando ho esaurito le cazzate e ho cominciato ad avere abbastanza pietà per il portafogli di mio padre. Ho dato in pasto alle fiamme la bella villa di quel parassita col lettino, la pipa, i volumi spolverati e tutto quanto. Perché non ce la facevo proprio più. Ero arrivato a contare i libri sugli scaffali per ventiquattro minuti. Poi guardavo i quadrati per altri trentadue. Che fanno cinquantasei. Quando facevo scena muta in quella maniera, lo strizza non mi rompeva troppo il cazzo. Se ne stava zitto zitto pure lui, ma lo capivi benissimo che stava pensando le sue cazzate sul perché me ne stessi in silenzio per cinquantasei minuti, tipo traumi subiti quando ero uno spermatozoo del cazzo o giù di lì. Mi guardava fisso e perplesso e pescelesso, e quelle sue cazzate aleggiavano risapute nell’aria stantìa.
Nei restanti quattro minuti m’inventavo un sogno ricorrente. E lo stronzo prendeva appunti. Poi si prendeva le centomila e mi congedava con un grugnito senza ricevuta, e abbastanza sbrigativo, perché i secondi dei saluti erano gratis, e dopo di me ce n’era sempre un altro con le sue centomila lire belle pronte in tasca.
Mio padre diceva che per colpa delle mie sedute dallo strizza parassita quest’anno non ci saremmo potuti permettere di andare al mare. Adesso non ci vado di sicuro. Devo ricordarmi di chiedere all’avvocato d’ufficio se ho più da temere per la violenza sessuale o per l’incendio della villa. O per aver fatto fuori a coltellate Don Bega il mattino dopo. Meno male che sono minorenne.
Per Don Bega contavano solo le esteriorità formali. Ci diceva sempre che quando passa un funerale e tu ti trovi lì per caso devi smettere di fumare o di mangiare le patatine e devi farti il segno della croce, anche se le dita sono tutte unte. Io se vedessi passare il corteo del suo fottuto cadavere vorrei solo avere il coraggio di emettere un bel rutto.
Qualcuno mi ha detto che i preti sono extraterritoriali. O almeno, quando sono loro ad ammazzare qualcuno succede così, che non gli fanno niente a patto che spariscano in un convento, come quello che assassinò una ragazza qui a Cuviago. Ma quando sei tu a fare secco uno di loro, mi sa che non ti mandano in un convento. Ridiventano subito territoriali, mi sa. Mi sa che te la prendi nel culo. Be’, si vedrà. Per il momento me ne sto qui. Sdraiato. A fissare le sbarre della cella. Che mi paiono un po’ meno opprimenti di quel soffitto bianco a quadrettoni.

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