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Recensione "L'ultimo quarto di luna" di Chi Zijian

Creato il 10 giugno 2011 da Alessandraz @RedazioneDiario
Cari lettori,lasciatevi trasportare dalla magia di questo libro, dalla magia del vento che, come gli altri elementi naturali - benevoli e non - si personifica nelle descrizioni di avvenimenti, tradizioni ed emozioni attraverso le parole dell’autrice. Una storia che intreccia la prospettiva storica dell’invasione giapponese della Manciuria, iniziata nel 1931, con la vita della narratrice in prima persona e quella della sua gente, la tribù evenca, chiamata “il popolo delle renne”.Titolo: L’Ultimo quarto di lunaAutrice: Chi ZijianEditore: CorbaccioPagine: 360Prezzo: 18,60 Trama:A me non piace l'idea di dormire in una stanza dalla quale non si vedono le stelle..." A parlare è una donna di novant'anni. Una evenchi, appartenente al popolo delle renne che si muove lungo il fiume Argun, all'estremo confine nord-orientale della Cina. Per secoli, la sua gente è vissuta a contatto con la natura, godendone la bellezza e subendone la crudeltà. Link, il padre della voce narrante, è il miglior cacciatore della tribù; Damara, la madre, è la donna più bella e la più abile danzatrice; Nidu, lo zio, è il capo della tribù e lo sciamano. La vita scorre semplice: gli uomini cacciano, le donne accudiscono i figli e le renne, e conciano le pelli che commerciano con i rari mercanti russi di passaggio. Ma con l'invasione giapponese della Manciuria, gli evenchi vengono stanati dalle foreste e, loro malgrado, si trovano a fare i conti con una realtà estranea. Dopo la guerra, entrano a far parte della nuova Repubblica Popolare Cinese, che li incoraggia a trasferirsi nelle città, a smettere la loro esistenza nomade per abbracciare la "civiltà". Alcuni si integrano, altri si trovano emarginati in una società che non capiscono. Intanto le loro foreste vengono abbattute, divise dalle strade. Chi sceglie di tornare alla foresta si sente ormai senza radici, senza identità, straziato dalla consapevolezza che non esiste più un posto per lui. La narratrice, invece, anche ora che è giunta alla fine, sa di dover rimanere là dove la sua storia ha avuto inizio.RECENSIONE
“…Un giorno di molti anni dopo, mio marito Walooja, che amava la lettura, mi indicò un segno su una pagina: - Quello si chiama ‘punto’ e bisogna disegnarlo quando in un libro una persona ha finito di parlare -
- Ah, ma io ho già visto quel segno, il giorno in cui mi persi tra i boschi. Stava scritto nel bel mezzo della foresta, era un lago in cui mi sono imbattuta – gli dissi io. Per fortuna, a differenza di un punto, quel lago rotondo non mise fine alla mia storia”.
Ho voluto iniziare la recensione con questa frase della narratrice in prima persona, “innominata” per tutta la durata del libro, perché rispecchia esattamente l’atteggiamento non solo dell’anziana voce che ci guida nel racconto: è testimonianza, come accennato nell’introduzione, di una visione del mondo descritta attraverso simboli, personificazioni, dove ogni segno, ogni elemento ed ogni essere diventa un tutt’uno con la natura. Parlare di poesia per questo libro è scontato: una donna novantenne, depositaria delle tradizioni di una cultura in via di estinzione, che torna tra le sue montagne al crepuscolo della vita, insieme al nipote Ancaor, mentre tutti i suoi familiari si sono trasferiti nelle zone abitate o non ci sono più. 
Deve restituire il suo corpo, una volta morta, a quella natura dalla quale era scaturito. Ci narra della sua nascita, di avvenimenti passati che ricorda o che (come appunto la sua venuta al mondo) gli sono stati raccontati da sua madre, che amava tanto danzare fino a morirne, per il freddo una notte, vicino ad un fuoco quasi spento. Lo stesso fuoco che aveva ricevuto in dono di nozze proprio da lei: facendo un brusco “ritorno al futuro” provi il lettore ad immaginarsi di ricevere dai genitori, per il proprio matrimonio, il fuoco… Ci dice che una sorellina prima di lei ed altre persone della sua gente, uomini tornati dalla caccia assiderati non hanno resistito al freddo tipico di quelle regioni, compreso il suo primo marito. La neve incessante che accompagna gli spostamenti della tribù in alcuni periodi dell’anno può essere spietata, ma è anche la stessa manciatina di neve che il secondo marito Walooja, il poeta, l’amante della lettura usava infilarle attraverso i vestiti quando scherzavano tra loro. Ci parla d’amore: di quando da piccola sentiva i genitori amarsi nella tenda come avrebbe fatto lei una volta sposata. Era tutto naturale, le avevano spiegato che era come il muoversi del vento. Ci spiega come lo zio Nidou e suo padre, Linke, avevano gareggiato per la mano della bellissima Tamara, sua madre, sfidandosi con l’arco a colpire due funghi uguali nella foresta. La natura, anche se non sempre benevola, permea tutto il percorso della vita della sua gente: lei ne è consapevole e nonostante i lutti, gli spostamenti, i cambiamenti che l’invasione giapponese ha apportato alla sua terra, lei, come uno degli alberi, una delle creature animali (le renne che il suo popolo pascola per sopravvivere) non riesce a sradicarsi dalle sue origini e dalla terra stessa. Come ricorda il sapore della linfa di betulla, che la madre faceva bere a lei ed ai suoi fratelli ricorda gli abbracci dei suoi mariti, gli affetti, senza rassegnazione né rimpianto: è il corso naturale delle cose. Chin Zijan possiede una grazia narrativa tale ed un pudore direi “intellettuale”, quello che necessita per entrare nei sentimenti altrui, non solo nella vita personale ed intima dei personaggi. Descrive minuziosamente usanze e particolari, ad esempio, sulle creazioni artigianali degli evenchi, la confezione dei vestiti, il cibo, la costruzione delle tende. E’ un grande omaggio che fà ad una civiltà sconosciuta, con una capacità rappresentativa tale da farci quasi percepire gli odori e i sapori, il vento e la neve, ma soprattutto i sentimenti. Non perdetevi questo romanzo, vi perdereste l’occasione di visitare un mondo scomparso e sarebbe come se un lago o un punto, se preferite, avesse messo fine alla storia, di quel mondo.L’AUTRICEChi Zijian è nata nel 1964 a Mohe, nella provincia dell’Heilongjiang, ai confini settentrionali della Cina, dove tuttora vive. È cresciuta ascoltando racconti popolari e storie di fantasmi e spiriti, e ha sviluppato fin da bambina un’attenzione e un amore particolari per la natura. Ha pubblicato il suo primo racconto quando era ancora a scuola. Con le sue opere ha vinto tre volte il prestigioso premio letterario Lu Xun e con Ultimo quarto di luna ha ricevuto nel 2008 il premio letterario Mao Dun, il massimo riconoscimento per uno scrittore in Cina. I suoi romanzi sono stati tradotti in inglese, francese e giapponese.

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