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Thatcher, lei riposa in pace, noi no

Creato il 08 aprile 2013 da Albertocapece

Thatcher signIl Danubio scorre grigio azzurro in Bassa Baviera prima di traversare Passau e poi arrivare a Vienna. A una quarantina di chilometri dal fiume culla della Mitteleuropa sorge un gigantesco stabilimento industriale sul quale veglia lo scudo rotondo della Bmw. Li dentro c’è molto della vecchia Inghilterra: vengono costruiti i motori, le scocche e l’elettronica della Rolls Royce. Il tutto poi viene trasferito nel Regno Unito dove solo grazie a consistenti e “illiberisti” aiuti governativi, i british worker assemblano il tutto. Più a nord, vicino a Berlino ecco un altro complesso industriale: questa volta il nome Rolls Royce, si vede bello chiaro, se non fosse che al nome è aggiunto Deutschland, sempre società della Bmw, che costruisce i motori d’aereo montati sugli airbus, su una ridda di executive e su molti apparecchi militari.

Rolls Royce certo evoca molto di ciò che per noi è Inghilterra, assieme alla Regina, all’immangiabile porridge , ma essa è ormai altrove, quasi si fosse realizzata la profezia che il vecchio leader conservatore  Harold Macmillan, espresse nel 1985, di fronte al massiccio programma di privatizzazioni della  signora Thatcher: “Prima scompare l’argenteria georgiana, poi tutti i bei mobili che adornano il salotto. Infine tocca ai quadri di Canaletto”. Ecco, sì Canaletto è andato. Ma insieme a molte altre cose e facendo della Gran Bretagna un Paese incazzato e difficoltoso, senza più una propria industria, dove la finanza londinese la fa da padrone e le aziende private si crogiolano nei loro profitti e nell’inefficienza nei confronti dei clienti, dove ogni giorno si taglia un pezzo di welfare nella speranza di superare una crisi endemica che non è stata stroncata dal “modello” di privatizzazione assoluta  che avrebbe dovuto essere la panacea di ogni male. Lo stesso che viene riproposto in continuazione con ridicola e drammatica sicumera.

Questo panorama non sarebbe stato possibile senza la signora di ferro, la Iron Lady che fu battezzata così non dagli inglesi, ma da un giornale dell’odiata Unione Sovietica. E’ a lei, in comunione con Reagan, che si deve quel modello misto di conservatorismo e liberismo, destinato col tempo e senza correzioni di rilievo a dare il frutti finali che conosciamo. Per la verità Margaret Thatcher è forse meglio rappresentata dal soprannome che le venne affibbiato dagli inglesi durante la sua prima esperienza di governo:  ”Thatcher, the milk snatcher”, la ruba latte. Nel ’70, giunta ad essere ministro del’istruzione, come primo provvedimento pensò di abolire il latte gratuito per i bambini dai 7 agli 11 anni. Al successivo turno elettorale fu trombata, ma si diede da fare per diventare capo del partito conservatore e di lì tentare il balzo per Downing Street. Le riuscì nel ’79, ma in fondo rimase sempre una ruba latte, una pioniera di quelle politiche di disuguaglianza che da allora hanno continuato a macinare il loro grano.

La personalità era forte, la decisione di lasciar morire i militanti dell’ Ira in sciopero della fame, l’intervento alle Malvine. supportato dai soldi e dai satelliti dell’amico Ronald, la lunga battaglia con i sindacati contro i quali riuscì a spuntarla, ne hanno costruito le fortune politiche durate 11 anni, ma il mito del thatcherismo, soprattutto grazie alla potenza di fuoco dei media conservatori di area anglosassone, è stato trasferito dal piano dell’epica da telegiornale anche all’ambito dei risultati economici che invece furono sempre modesti e in qualche caso fallimentari. Altro che aver salvato il Regno Unito. Però la signora di ferro era una figura assolutamente preziosa per accreditare i suoi successi anche sul conto delle ricette economiche.  In realtà nel primo mandato dopo aver spostato sulla tassazione indiretta (sull’iva in particolare) parte del peso fiscale, riuscì a raffreddare l’inflazione, ma anche a quadruplicare la disoccupazione e a ridurre di un terzo gli utili dell’industria.

Nel secondo e terzo mandato, interrotto poi dalle dimissioni, continuò in queste politiche e inaugurò anche la strategia delle privatizzazioni che portarono la Gran Bretagna a farsi superare in termini di Pil dall’Italia del Caf  (che è tutto dire). Il Paese era stanco, i giornali mitizzavano, ma in realtà una nuova ventata di crisi economica la costrinse ad inventarsi la poll tax, una imposta uguale per tutti i cittadini britannici qualunque fosse il loro reddito: uno sciopero fiscale a cui aderirono 18 milioni di persone la costrinse a dimettersi, dopo aver messo le basi per la vendita quasi totale dell’industria britannica e delle infrastrutture essenziali. Al resto hanno pensato il blairismo e di nuovo i conservatori alla Cameron.

Così la stagione tatcheriana che doveva salvare la Gran Bretagna, trasformando tutto in privato ha ottenuto un brillante risultato:  oggi il 20% dei giovani dai 16 ai 24 anni è disoccupato, il che per la statistica significa che in 365 giorni non ne ha lavorato nemmeno uno. E si è raggiunto contemporaneamente il minimo storico di iscrizioni alle università e il massimo di debito complessivo. Ma certo non è solo colpa della signora di ferro: anche il labour di Blair ha le sue colpe e soprattutto quella di essere stato sedotto da questa visione semplicistica di stato inefficiente, privato efficiente. O dall’idea di una big society nella quale fossero i cittadini stessi a sostituire lo stato nella gestione di molti servizi, mentre nella realtà è accaduto che lo Stato è diventato debole ed evanescente, mentre i potentati privati, spesso stranieri, fanno il bello e il cattivo tempo. Blair è arrivato persino a vendersi le ferrovie, esilarante esempio di una catastrofe ideologica che sarebbe un buon soggetto per un Circolo Pickwick del 21° secolo o forse l’epitaffio per un liberismo ormai folkloristico nelle sue affermazioni: i biglietti costano il 30% in più che in Germania, dove i treni sono gestiti dal pubblico, salvo qualche linea particolare e sono per di più assai meno efficienti. Ma costano allo stato che rimane socio  dei privati, il 40% in più di quello che costano all’erario pubblico tedesco. Non è forse un caso che in queste condizioni e situazioni  Gordon Brown abbia speso la bellezza di 850 miliardi di sterline per salvare le banche e si sia svenduto la metà delle riserve auree inglesi, proprio prima che il prezzo del metallo schizzasse alle stelle.

Ma, si sa. i miti non si toccano. E così Margaret Thatcher risposa in pace, ma noi siamo all’inferno.

 


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