«Ebbene sì, ho trent’anni». Avere trent’anni da circa quattro anni, o cinque. Non è un periodo ben definito. Certo, nei ricordi capita di sfogliare le istantanee del compleanno, dell’ufficialità anagrafica, delle pacche sulle spalle e delle parole buttate al vento. Riecheggiano frasi prestampate, come «Benvenuto nel club», o «Non sei più un ragazzino», con la cassa di risonanza portata da quel numero così perfetto da importi la perfezione di maturità, a costo di tener premuto l’acceleratore (senza mollarlo neanche in curva). Il trentenne, che sia ventottenne o trentaquattrenne, rimane sempre un trentenne, che è condizione psicologica e morale, che è passaggio delicato.
A trent’anni si entra nelle indagini Istat, a trent’anni si provano emozioni simili a quelle che riempiono gli attimi prima della partenza, con saluti bagnati, abbracci calorosi, e fiduciose promesse mancate. A trent’anni si soffre come adolescenti: la differenza sta solo nella maggiore capacità di gestire la tempesta emotiva propria del quattordicenne (forse è per questo che l’acne non sembra lasciare definitivamente il passo).

I giornali riempiono le pagine di giovani madri precarie, di ricercatori sottopagati, di prototipi stretti e politicizzati in cui non tutti i trentenni contano di rientrare. I sermoni d’accusa e toni da apocalisse, nel mondo reale, fanno spesso spazio a malinconia remissiva, che non lesina sogghigni d’amarezza. L’indignazione, merce fresca per il quotidiano o per il rotocalco, è in realtà scaduta da tempo. Il trentenne è trentenne per un lustro, ed è certamente il personaggio dell’anno da almeno un decennio, nel nuovo mondo dagli orizzonti sbiaditi.
Il trentenne è l’esponente di una generazione stropicciata dai cambiamenti, cristallizzata nelle angosce, oppressa dall’esubero di provvisorio, ove “provvisorio” è diventato sinonimo di definitivo. Il provvisorio che, diciamo la verità, fa bene alla pelle, e stimola la mente. In mezzo a tanta precarietà, ci si sente eternamente giovani, e non si capisce più se esserlo al cento per cento e senza remore, oppure sforzarsi di diventare adulti, senza capire bene i parametri della differenza, e senza che nessuno s’interessi nel fartela comprendere.


Guardi quell’abito, e immagini la sera del giorno dopo, quando rincaserai esausto dal tour d’accettazione, e quello scintillante completo a cui hai dedicato tempo e passione si trasformerà in costume pagliaccesco, improvvisamente inadatto alla montagna di esigenze che la società (senza troppo badare alle eventuali e relative risposte) continua a creare e sparare in aria. Vestito troppo stretto, quello, per sentirsi liberi di esprimersi, creare, disfare, o semplicemente per rimanere fermi a riflettere sul da farsi. Tra abiti stretti e strade sterrate, la missione del trentenne appare assai gravosa: lottare per essere ciò che non sarebbe mai voluto diventare, aspettando il momento in cui la sveglia interromperà questo incubo ibrido e senza tempo. Con il terrore suadente di aprire gli occhi quando serviranno soltanto per guardare indietro.
(Pubblicato sul “Fondo Magazine” del 15 marzo 2012)






