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Trilacca

Da Renzomazzetti

margherite di primavera.

 Ora era calata la sera, e la pianura fumava di una nebbia azzurra che aveva ricoperto col suo velo la città. Le ombre si allungavano sotto le volte sempre più scure dei castagni, e colle ombre anche si destava negli animi quel senso di vago e di solitudine che sempre afferra chi sia lontano da casa. Gli occhi brillavano della luce rossa del fuoco, intorno alla fiamma che bruciava nel camino della baita annerita. E avevano lontane visioni davanti, di volti e di pareti note. Trilacca se ne stava accoccolato sulle gambe, lo sguardo duro che scrutava il passato. Vedeva una testa bianca di vecchia sulla sua spalla, tanto che colla mano volle accertarsi se non vi poggiasse ancora. Nulla. Sulla sua spalla c’era la cinghia di cuoio del mitra, e il mitra gli poggiava sulle gambe. Intorno a lui le pareti nere di fumo della baita, e le facce dure dei compagni, sopra le quali si muoveva il riflesso rosso della fiamma. Coraggio Trilacca, diceva qualcuno guardando a terra. Il colpo è forte, lo so. Ma noi li ammazzeremo tutti. Coraggio, ripeteva fra sé Trilacca. Coraggio. Perché? Ah, ma ora ricordava. Certo. Quella mattina la ragazza che fa da staffetta era venuta su portando un foglietto di carta ripiegato, e lo aveva dato a lui imbarazzata. Poi si era voltata da un’altra parte, la ragazza della staffetta, e lui aveva letto le poche righe che il curato gli aveva scritto. Se le ripetette mentalmente. Ragazzo mio, dicevano le righe. Dio è grande e misericordioso. Tu sarai forte come tuo padre. Ora è nel regno dei cieli, tuo padre. I fascisti hanno saputo di te e si sono vendicati come hanno potuto. Sii forte, e coraggioso. Sii forte e coraggioso come lui. Ti benedico. Sentiva il sapore denso della chiesa, Trilacca, di quando alla domenica andava a sedersi sotto il pulpito, sulle panche di legno. Il prete passava davanti a loro ragazzi e domandava: Avete studiato bene il categhismo? Sentiva quella voce, e il sapore di cera e di incenso gli entrava nel naso. E su, dunque, diceva un compagno guardandosi una mano con attenzione. Non pensare a quei cani. Un giorno faremo giustizia. Trilacca alzò il capo tentando di dire qualcosa, ma un uomo gli pendette davanti agli occhi, giù come un sacco che sia stato legato ai rami di un albero. Lo vedeva dondolare e battere i piedi nel tronco, la testa reclinata sulla spalla come a guardare la polvere. In una piazza che era quella del suo paese, all’albero solitario nell’aria bruna della sera, un uomo che si muove sbattuto dal vento, che era suo padre. Chiudeva gli occhi, allora, per non vedere. Ma tutto gli restava davanti, e un furore sordo lo scuoteva dentro. Io so chi è stato, disse Trilacca. I compagni alzarono il capo intorno a lui. E attesero che parlasse ancora. Ma Trilacca era tornato a guardare nel proprio passato, e vedeva suo padre che caricava balle di carbone sul barroccio. Era nero, suo padre. La polvere del carbone gli era entrata nella pelle, ormai. Lo diceva sempre. Per quanto mi lavi diceva, sembrerò sempre un negro. E la mamma, che aveva la mania dei lenzuoli puliti, si metteva le mani nei capelli. Ma ora egli era un sacco vuoto legato ai rami di un albero. E la mamma avrebbe continuato a tenere le mani fra i capelli per tutto il resto della sua vita. So chi è stato, disse Trilacca guardando fisso davanti a sé. Lo so come sapere chi sono io. Avanti, parla, dissero i compagni stringendo i denti. Se sai chi è stato, diccelo. Trilacca fece un gesto con la mano. E’ una spia, spiegò. Lo dicevo sempre io. Ma per quanto i compagni attendessero, egli non continuò. Si perse a guardare un volto giallo e ossuto che gli ghignava da dentro la fiamma; e poi tutta la persona saltava fuori, bassa e colle mani sui fianchi a prepotenza, un ometto dalla testa di serpente, in camicia nera. Era lui, il vicino di casa, segretario del fascio del paese, cui un giorno suo padre aveva detto: Porto anch’io la camicia nera, sì; ma è per via del carbone. L’altra mi si insudicia. L’ometto l’aveva chiamato alla casa del fascio, allora; e suo padre duro come un sasso. Piuttosto mi faccio ammazzare, che entrare là dentro, diceva. E il fascista ghignava storcendo la bocca, pallido di rabbia e coll’espressione di chi attenda il momento buono.. Ora Trilacca era sicuro come se avesse visto la scena. L’ometto giallo dalla testa a serpente l’aveva denunciato alla squadra dei briganti neri, e loro l’avevano portato via, mentre la donna si metteva le mani nei capelli. Per tutto il resto della sua vita, disse Trilacca. Come? Domandarono i compagni intorno. Perché non ci dici chi è stato? Trilacca sorrise e si alzò, andò sulla porta della baita. Era notte ormai. Le tenebre avevano invaso il bosco, e la valle era ricoperta di oscurità. Il silenzio pieno di ricordi gravava intorno, mentre fra gli strappi dei rami apparivano fredde e lucide le stelle. I compagni lo guardavano, dall’interno, e le loro facce erano tristi e rosse della luce del fuoco. Arrivo qui, disse Trilacca. Faccio due passi nel bosco. Vuoi che venga con te? Disse un compagno. No, rispose Trilacca. Faccio due passi per sgranchirmi le gambe. E si allontanò dalla baita che presto fu inghiottita alle sue spalle dalla notte fonda a dalle piante. Aveva preso a correre, ora, verso il paese, saltando fra gli sterpi e i sassi, lacerandosi la pelle delle mani ai pruni. Correva per scendere alla piazza del paese, a vedere suo padre attaccato all’albero, a fargli compagnia nella notte. E anche per regolare i conti col cane fascista. Correva per andare da sua madre e dirle: Ora dovrai tenere le mani nei capelli per tutto il resto della tua vita. Ma ci sono io. Coraggio. E il mitra gli batteva sul petto, mentre saltava da un ciglio all’altro. Ecco la strada, la prende di corsa; la notte risuona del rumore dei suoi passi. Poi le prime case. Da mesi e mesi non vedeva il mulino, e chissà se il vecchio Antonio sia ancora vivo. Va rasente ai muri, tenendo teso l’orecchio. Le case sono basse e scure. Solo qualche finestra è illuminata. Finalmente la piazza. L’attraversa guardandosi attorno, e va sotto l’albero solitario. Guarda ; ma nessun corpo pende giù. Allora va alla chiesa. Bussa ai vetri della sacrestia e si acquatta dietro la siepe. Il prete si sporge fuori. Chi è? Chiede. Trilacca si fa riconoscere, va dentro, l’odore della cera e dell’incenso gli penetra le narici. Ora il prete racconta di tutti quelli che sono stati uccisi nel paese, e che se domani sapranno che un partigiano è stato in sagrestia uccideranno anche lui. Sembra invecchiato, il prete, ha gli occhi stanchi. Li tengono fuori fino a che non cadono putrefatti, dice. Sotto gli alberi a giornate intere. E mia madre? Scuote la testa, il prete: Povera donna! Ma ha fede, tua madre, dice. E perdona a tutti. Trilacca stringe fra le mani la canna fredda del mitra. Mio padre è nel cimitero? Chiede. Sì, risponde il prete. Ci sono sette tombe senza lapide, con sette croci nere. Sono tutti lì. Trilacca esita. Un’ultima domanda, padre? Il segretario politico? La spia! Fa il prete con disgusto. Dio misericordioso, provvedi tu! Trilacca balzò fuori dalla sacrestia e corse attraverso la piazza. Il prete lo vide scomparire nella notte; e cadde in ginocchio, si mise a pregare. Perdonaci tutti, diceva, dei nostri peccati. Chi può giudicare? Tu soltanto vedi ciò che è bene e ciò che è male. Bisbigliava, ora; sempre più sotto voce. Fino a che tacque e si mise ad ascoltare il silenzio della notte. Era un silenzio profondo, e lungo come la angoscia. Ad un tratto una raffica secca di mitra lacerò l’attesa, e si perse nella lontananza. Poi fu silenzio ancora. Sia fatta la tua volontà, disse il prete. Perché grande è la tua giustizia. -Marcello Venturi, Racconti partigiani: Giustizia, tratto da Rinascita 1946.

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IGNOMINIA

Lo straniero non sapeva tutto

di quei monti e di quelle colline

non sapeva tutto di quelle pianure.

Lo straniero si smarriva

nei labirinti dei centri antichi

non trovava gli sperduti paesini.

Lo straniero non conosceva quel sentiero

né il sicuro nascondiglio

dove bambini giocarono e ragazzi si uccisero.

Il fascio littorio

Salò e le camicie nere

furono barbarie e distruzione.

Antigone salvò quei neri cadaveri

dalla furia dei perseguitati assassinati

nell’aldilà dove non si perdona.

L’eterna oscurità detenga le spie

e i servitori dei tiranni dannati

nell’infernale pozzo dei traditori.

Nessun civile perdono sia concesso

al morto non uguale al morto

solo rigoroso ricordo.

Ancora sanguinano innocenti ferite

e cumuli di coscienze tremanti

testimonianze perenni

per non ricadere nell’ignominia.

-Renzo Mazzetti-

 


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