Nella lettera dedicatoria "al molto illustre e valoroso signore il signor Giovanni de' Medici" (meglio noto come Giovanni delle Bande Nere) che Matteo Bandello fa precedere alla novella Messer Cocco e Domicilla si sfotte, e di brutto, "il nostro ingegnoso messer Niccolò Macchiavelli" per aver dato prova, a sue spese, di "quanta differenza sia da chi sa, e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha più volte messe le mani in pasta e dedutto il pensiero e concetto de l'animo suo in opera esteriore", a illustrare che "sempre il pratico et essercitato con minor fatica opererà che non farà l'inesperto, essendo l'esperienza maestra de le cose, di modo che anco s'è veduto alcuna volta una persona senza scienza, ma lungamente essercitata in qualche mestieri, saperlo molto meglio fare che non saperà uno in quell'arte dotto ma non esperimentato": era l'estate del 1526 e nei pressi di Milano "messer Niccolò quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti secondo quell'ordine che aveva scritto [nel suo Libro de la arte della guerra], e mai non gli venne fatto di potergli ordinare", e "tuttavia egli ne parlava sì bene e sì chiaramente, e con le parole sue mostrava la cosa esser fuor di modo sì facile, che io che nulla ne so mi credeva di leggero, le sue ragioni e discorsi udendo, aver potuto quella fanteria ordinare", fino a quando, "veggendo che messer Niccolò non era per fornirla così tosto", "detto[gli] [...] che si ritirasse e lasciasse far a voi, in un batter d'occhio con l'aita dei tamburini ordinaste a quella gente in varii modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò". Ennesima avvilente conferma - vi accennavo qualche settimana fa - della "distanza che c'è tra studio e mestiere [sicché] si vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto non è affatto vero, anzi, [...] sconcerta, può arrivare a infondere sgomento, ma è di piana evidenza che, almeno in certi campi, sia impossibile trasporre con qualche profitto le regole che fanno il metodo della più perfetta scienza" ( Malvino, 16.11.2014). Di questo mio sconforto relativo al fatto che "è nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare", piuttosto che da seguire, si stupiva un lettore (Romeo Sciommeri), il quale mi faceva presente che "di solito si scommette sulla grossolanità della scienza sociale rispetto alla complessità del suo oggetto di studio": in pratica, dovremmo concludere che sia impossibile una qualsivoglia scienza sociale, con ciò dando per scontato che le scienze sociali siano inassimilabili alle scienze naturali. Per sostanziale differenza dell'oggetto o per inapplicabilità dello stesso metodo? Torno un attimo al post cui ho fatto cenno prima, al punto in cui liquido la questione - in verità, con una soluzione di comodo - scrivendo che "è nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare, perché il miglior daffare raramente è un ottimo affare". Possiamo farcelo bastare per concludere che quanto la scienza dà come ottimo non è mai tale rispetto a ciò che l'arte giudica migliore? E in cosa, allora, l'arte del governare risulta sempre vittoriosa sulla scienza politica? In altri termini - per riprendere quelli che usavo qualche settimana fa - se "non si è mai visto un grande economista diventare miliardario grazie a tutta la sua scienza", bisogna dedurre che non c'è alcuna relazione tra l'arte di far soldi e le teorie economiche? Ancora: com'è possibile che il consenso si guadagni così spesso contro ogni ragione? Lo scienziato della politica risponde che il rapporto tra teoria e fatti diventa tanto più labile quanto più i fatti si carichino di intenzionalità, per l'essere azioni di cui sono titolari individui o gruppi, e che è proprio questo fattore a determinare quel contesto policondizionale in cui viene a perdersi la prevedibilità che è propria del sistema entro il quale i fatti provano la correttezza di una teoria; in più, ci dice che, per la loro natura, essi sono ambigui, dunque difficilmente comprensibili, sia quando siano causa di ciò che si è chiamati a prevedere, sia quando siano effetto che sembra smentire la previsione. Resta la questione che avevamo lasciato aperta nei pressi di Milano nell'estate del 1526: Giovanni delle Bande Nere la chiude sistemando le truppe dove Dio comanda e invitando Machiavelli a pranzo, dove lo prega "che con una de le sue piacevoli novelle ci volesse ricreare".
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