da qui
La gente riempie la piazza: sono in piedi, bambini, vecchi, adulti; uomini in giacca e cravatta, donne con abiti bianchi e occhiali da sole più scuri del normale. Ogni tanto qualcuno si muove, rompe le righe, con le mani sugli occhi: piange, forse, o va a rinfrescarsi la fronte alla fontana. Il colonnato è un abbraccio di marmo, infelice, consumato dall’oscuro rimpianto di non essere umano, di non avere un cuore, un respiro che acceleri o rallenti, una mente capace di sognare. Un signore vestito di scuro sta sfogliando un giornale di formato superiore alla media, per raccogliere commenti e previsioni. Il ragazzo con le braccia conserte si volta per cercare una risposta, come fosse possibile trovare una risposta voltandosi a destra o a sinistra, come se l’ombra della morte non fosse un panno grezzo che copre ogni spiraglio di senso, come se bastasse cambiare posizione per trovare un posto più comodo all’angoscia insopportabile. Perché allora sono qui, nella piazza enorme, davanti alla basilica maestosa, aspettando che qualcuno si affacci alla finestra, che dia un segno, un segno qualsiasi, una notizia, perché non c’è niente di peggio che aspettare, non c’è niente di più terribile che pendere dalle labbra, dalle cesoie spietate della parca Atropo. Perché la morte fa più male quando muore un uomo come questo? Vorresti correre, compiere un gesto qualunque, chiedere a un dio che dica una parola, stenda la mano, pronunci una formula capace di rimettere in piedi il moribondo, dare una possibilità ulteriore a chi ha aperto un orizzonte nuovo per l’umanità, disposta a ripiegarsi sempre sulle proprie delusioni. E chi dice che non sia l’agonizzante ad avere l’animo sereno, lui che ha combattuto fino all’ultimo perché negli occhi degli altri resistesse una luce, un sorriso sfuggito un giorno alla tristezza? Non sarà consapevole di essere un canale del flusso che chiamiamo spirito e non sappiamo mai di dove venga né dove vada? La cupola è un seno di donna che si offre ai fedeli-bambini, alle facce sconvolte di chi attende una notizia, pregando e imprecando, perché non c’è niente di peggio che aspettare, pendere dalla labbra secche, dalle cesoie lucide di Atropo.