Magazine Opinioni
Oggi non parlo io, lascio che lo faccia Pietro Treccagnoli, autorevole firma del giornalismo italiano, ma soprattutto napoletano, perché, nonostante tutto ha deciso di restare qui nella mia, nella nostra contraddittoria città, e, sorprendentemente, scrive sul quotidiano 'IL MATTINO'. Un uomo ostinato, quindi. Leggete oggi cosa ha scritto, meravigliosa fotografia di una realtà napoletana che pochi hanno il coraggio di raccontare. Buona lettura!
LO SPACCIO NELLA NAPOLI BENE - La cocaina, i quarantenni e la cittàPietro Treccagnoli14-Giugno-2014«So' belli i trenini delle feste, so' belli perché non vanno da nessuna parte»: la jepitude, la rassegnata inconcludenza di Jep Gambardella della «Grande Bellezza», a Napoli ha sempre trovato la sua terra d'elezione, in una certa Napoli dove le abitudini e le presunzioni del generone romano si riducono ai balbettii afasici del generino vesuviano, in un trenino che non ha mete e stazioni, in un calice di vino bevuto davanti ai baretti di Chiaia fingendo di capirne e carpirne sapori e umori, in una sniffata nel weekend sull'attico di Posillipo con vista sul Golfo o sulla barca che veleggia verso la casa di papà a Ischia, a Capri o a Procida. Una chiorma di sfaccendati, quarantenni e cinquantenni benestanti, che dal proprio benessere hanno ricavato solo quell'estasi vaga della cocaina, quella caduca volontà di potenza che si ammoscia, come il trenino delle feste, in un samba spompato. Queste ultime reclute di una generazione sgonfiata più che fallita, finita ammanettata dai carabinieri perché truppa di complemento dei pusher della Gomorra più cialtrona, questi rampolli della borghesia chiusi nelle loro case superaccessoriate come in una dependance dell'edonismo reaganiano fuori tempo massimo, questi prigionieri dell'eterno presente non si sono neanche accorti che la cocaina, in un mercato spacciato con i prezzi a picco, era diventata «out», roba da straccioni, questi Peter Pan con la mangiatoia bassa sono rimasti aggrappati a un sogno che è diventato un bisogno, inconsapevoli che la loro trasgressione si era ormai rattrappita in una farsa, in un urlo afono contro un padre che si era arreso da decenni. Ma forse scomodare la psicologia è troppo, solo un esercizio retorico. È tutto più facile e meschino. Sul palcoscenico si esibisce la medesima, eterna, napoletanissima classe digerente degli anni Sessanta che non si è mai estinta. Invece di aprire la bocca per ingoiare, ora allarga le narici per sniffare. Sulla ricchezza ricevuta senza meriti e senza qualità ha intessuto una fragilità morale e politica, facendone la propria coccarda di fatua borghesia, priva di una coscienza di classe e svuotata da una classe della coscienza. A che cosa ha portato questo smarrimento in un eterno personalissimo presente, lontano dal presente comune? A doversi sempre aggrappare, nella vita come nella società, a un papa straniero, fosse pure il camorrista che gli procura la dose o lo coinvolge nello spaccio domestico, endogeno. Sono feriti a morte senza aver combattuto la più insipida delle battaglie, foss'anche la bella giornata dei Massimo, dei Ninì e dei Sasà del romanzo di Raffaele La Capria. Quartieri alti e Quartieri Spagnoli, una Napoli che sui due lati della moneta ha una sola faccia, più croce che testa. E la città, la vita politica della città, paga il prezzo di questa intelligenza con il nemico da parte di chi, come ceto affluente e influente, dovrebbe contribuire più attivamente degli altri a costruire il senso civile e pensare al bene comune, oltre che al proprio. A Napoli, da tempo, è difficile distinguere il figlio di un ricco professionista da quello di un camorrista. Frequentano gli stessi locali, si pavoneggiano negli stessi abiti e nei medesimi tatuaggi, guidano le stesse auto, condividono le stesse voluttà, compiono gli stessi abusi, parlano la stessa lingua, hanno gli stessi idoli. E commettono gli stessi reati. La retata dei carabinieri li ha rinchiusi nelle stesse celle. Il trenino da qualche parte doveva portarli.
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