Fermiamoci, riflettiamo, prendiamo coscienza, salviamoci. Nessun altro può farlo per noi. Sono le parole scritte da Tiziano Terzani nella sua opera “Lettere contro la guerra”. Non si tratta di un encomio al pacifismo, bensì di una considerazione maturata all’indomani degli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre. Una frase molto più attuale di quanto possa sembrare, soprattutto se letta alla luce della crisi siriana e del bilancio dei dodici anni di lotta al terrore ingaggiata dagli Stati Uniti, superpotenza da sempre paladina della giustizia mondiale, coinvolta in conflitti capaci di mobilitare paesi, popoli, interessi e rancori regionali. Quella data, 9-11, rappresenta ancora oggi uno spartiacque universale, dalla politica di sicurezza alle relazioni internazionali e geostrategiche del mondo.
Quando nel 2001, George W. Bush avvertì che la guerra al terrorismo sarebbe durata a lungo e che i suoi risultati avrebbero tardato a palesarsi, non aveva assolutamente torto. Ma a prescindere da questo, Bush non è riuscito a far tesoro delle lezioni della guerra in Vietnam, né di comprendere che l’identità del popolo americano si distingue per l’orientamento verso i risultati. Le strategie di Bush e Condoleezza Rice, al contrario, si sono sempre uniformate sulla lotta alla “rete globale del terrorismo”: un proposito tanto nobile e fastoso quanto impraticabile e caliginoso.
“Ogni nazione di ogni regione ha in questo momento una sola decisione da prendere: o siete con noi o siete con i terroristi”. Con queste parole, il presidente repubblicano anticipava la preparazione della “guerra preventiva”, l’elemento più caratteristico della dottrina Bush. Scegli una nazione, colpisci e stupisci: shock and awe, del resto, è stato il nome scelto per i bombardamenti compiuti su Baghdad. E fu così che gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel marzo del 2003, sulla base di storielle e accuse costruite artificialmente nell’arco di un autunno per giustificare la guerra preventiva. L’amministrazione Bush sosteneva che il regime di Saddam Hussein fosse in possesso di armamenti nucleari e che sarebbe presto giunto a produrre testate atomiche. L’invasione avrebbe dunque evitato che l’Iraq rifornisse i terroristi con armi di distruzione di massa. Ma così non è stato. Tanto è vero che ancora oggi siamo al punto daccapo, visto che l’amministrazione Obama sta mettendo sotto accusa il regime siriano di Bashar al-Assad di fare uso di armi chimiche. Potrebbe trattarsi del solito cliché, se non altro ormai anacronistico.
Facendo un piccolo passo indietro, prima dell’Iraq gli Stati Uniti si sono conquistati il sostegno del Pakistan per invadere il vicino Afghanistan dominato dai talebani, primi sostenitori di Al Qaeda secondo fonti dell’intelligence. Ma l’alleanza con il presidente pakistano, Pervez Musharraf, si è rivelata la scelta più imbarazzante e inadatta nella storia delle relazioni internazionali. Roba da far mettere le mani nei capelli a Kissinger, visti i legami di Musharraf sia con i talebani che con Osama bin Laden, il cosiddetto Principe del terrore, nonché “primo nemico” degli Stati Uniti e principale responsabile dell’attentato alle Twin Towers. Strana equivalenza; all’inizio del 2011 l’intelligence ha svelato che bin Laden si nascondeva in un compound in Pakistan e che, a quanto pare, lì ci fosse rimasto indisturbato per più di cinque anni. Un ambiguo parallelismo diplomatico anche quello con l’afghano Hamid Karzai, il “presidente del giorno dopo”. Colui che guida l’Afghanistan ancora oggi da quando gli americani hanno invaso l’antica via della seta. Tra l’altro, distintamente riconosciuto per essere corrotto.
Eripe me his, invicte, malis; quali sono stati risultati? La missione in Iraq, lo sappiamo, si è conclusa con il ritiro delle truppe statunitensi da un paese senza più ordine né forma, che presenta delle contraddizioni perfino nella costituzione, dove mediamente muoiono tremila persone al mese a causa dei conflitti etnici e religiosi. Di converso, è ancora attiva la missione Isaf in l’Afghanistan, una nazione in cui la guerra continua imperterrita, dove il traffico illegale di droga e armi con i vicini Iran e Pakistan sconvolge la vita di una popolazione senza più speranza né prospettive. Due “interventi umanitari” che sono costati la vita a 6.500 soldati statunitensi, senza dimenticare l’enorme numero di vittime civili dei conflitti. Guerra chiama guerra, terrore chiama terrore.
In compenso, nel maggio 2011 è stato ucciso Osama Bin Laden. Ma il merito di questa operazione se l’è preso Barack Obama. Quasi più una soddisfazione morale che un colpo inflitto all’indefinibile avversario rappresentato dal terrorismo, di cui Osama ne incarnava sia il simbolo che l’idea. Lo scettro della guida di Al Qaeda è poi passato al medico egiziano Ayman al-Ẓawāhirī, che ha avuto un ruolo notevole durante le primavere arabe. Già, ci sono stati pure gli interventi in Egitto e in Libia. Ma in quel caso si trattava di far cascare due “dittatori”.
Ebbene sì. Sono già passati dodici anni. Fino a qualche giorno fa, paradossalmente, gli Stati Uniti erano intenzionati ad indire un intervento militare contro il regime di Bashar al-Assad, con la chiara illazione di schierasi dalla parte di Al Qaeda, gli stessi responsabili della morte di migliaia persone negli attacchi dell’11 settembre. Questo non significa che le terribili immagini dei civili siriani morti durante l’attacco di Ghouta non siano vere. Significa che qualsiasi prova contraria sembra essere scartata, come scrive Robert Fisk. Per esempio, nessuno si è accorto che lo stesso giorno in Libano tre membri di Hezbollah – che combattono a fianco delle truppe governative di Damasco – sono stati colpiti dallo stesso “presunto” gas in una galleria di Beirut. Poi l’ultimo riscontro spetterà ai referti medici.
Ora, almeno apparentemente, siamo entrati nella fase delle mediazioni diplomatiche. L’amministrazione Obama si è accorta che in dodici anni la situazione è cambiata. Oggi il confronto con le potenze che negli ultimi anni hanno fatto passi in avanti, rompendo quel primato di risorse militari e strategiche fino a poco tempo fa esclusivamente a stelle e strisce, è imprescindibile. Un tale cambiamento di rotta, del resto, avveniva mentre gli Stati Uniti restavano impantanati in Iraq e Afghanistan ed erano costretti ad affrontare una crisi economica senza precedenti. Per uscire dal caos siriano vale dunque la pena di prendere in considerazione l’apertura dei russi; al contrario, i richiami delle sirene “saudite” e degli “amici” del golfo potrebbero essere ingannatori, visto che il loro principale scopo non è solo quello di abbattere il regime di Damasco, ma di colpire l’Iran sciita di Khomeini, sospettato di possedere il nucleare pur non facendo parte del prestigioso club dell’atomo.Oggi, 11 settembre 2013, sarebbe opportuno riflettere e prendere coscienza del fatto che non conviene più farsi trascinare in altri conflitti dagli esiti tutt’altro che previsti. Ormai l’opinione pubblica americana è immunizzata da qualsiasi pretesto per creare nuovi scenari di guerra, gli ultimi sondaggi parlano chiaro. Ipso facto, gli americani guardano sempre ai risultati. Piuttosto, gli Stati Uniti hanno il compito di “creare” le condizioni per un nuovo equilibrio di sicurezza mondiale, che passa inevitabilmente per un accordo internazionale sulla resa delle armi chimiche e biologiche, non solo da parte di Assad. Questa potrebbe essere la giusta riflessione da intraprendere a dodici anni di distanza da quel terribile 11 settembre 2001. Preso atto dell’evidente necessità di contestualizzare la lotta al terrorismo, gli Stati Uniti hanno dunque il compito di riconsiderare il proprio ruolo di risolutori mondiali dei conflitti, scongiurando qualsiasi rango che li inquadra come “artefici” di questi ultimi.