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116. Al posto mio

Da Fabry2010
116. Al posto mio

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Yehochoua non è mai stato in una sala così ricca: pavimenti in marmo, tavolo in legno pregiato, sedie imbottite con i braccioli in noce. L’uomo vestito di bianco fa gesti lenti con le mani, come se stesse descrivendo qualcosa.
- Per cui sono curioso di conoscerti meglio, di capire dove vuoi arrivare.
I soldati sono schierati, con gli scudi trasparenti; sullo sfondo, oltre il muretto, la moschea di Omar.
- Il nostro interesse è l’annuncio del messaggio, la realizzazione della Parola di Dio fin da questo presente tormentato.
Hanno visiere calate su uno sguardo duro, che squadra il nemico, ne studia le mosse e le intenzioni.
- Facciamo il possibile perché tutti i popoli siano raggiunti dal nostro soccorso materiale, dalla nostra sollecitudine paterna.
Le camionette scorrono lente, in fila indiana, precedute e affiancate dai militari c0i mitragliatori.
- So che vorresti una maggiore sobrietà, una rinuncia ai segni del potere.
Un elicottero sorvola la zona, come un uccello rapace che cerca la sua preda.
- Non ti piacciono i titoli, perché ritieni che gli uomini e le donne siano uguali.
Cominciano a correre, tra le case bianche, le strade impolverate.
- Sogni che l’oro dei palazzi, gli istituti religiosi, i beni sparsi nel mondo siano destinati a sfamare coloro a cui non è rimasto che il vangelo.
Dall’altra parte, uomini e ragazzi dal volto coperto lanciano pietre piegandosi in due per arrivare più lontano.
- Sarebbe bello riempire queste sale di gente che non ha riparo, dei disperati che consumano ancora sotto i ponti gli ultimi spiccioli di vita.
La ragazza ha qualcosa tra le mani, la stringe, fra gli agenti che la conducono via, in quattro, in cinque.
- So che cambieresti tutto, al posto mio, che scioglieresti la curia e ti circonderesti di volontari richiamati dalle zone calde della terra.
Un giovane è steso nella strada mentre gli danno schiaffi sulla testa.
Mi hanno detto che apriresti le porte dello Stato a quelli che non hanno Stato, che sono banditi da ogni luogo e hanno perso i diritti elementari.
Corrono tra i falò accesi, scavalcano le barriere improvvisate, accerchiano chi non è rapido a fuggire.
- Pensi che non sia d’accordo, Yehochoua di Nazaret, pensi che mi diverta a pesare le parole, a sopportare l’etichetta di palazzo, a frenare i sentimenti?
La ruspa ha abbattuto la casa, non rimane che un mucchio di macerie.
- Non credi che vorrei anch’io predicare per le strade, parlare con la gente, accarezzare il capo dei bambini, stare a contatto con la vita?
C’è qualcosa che brucia: ma cos’è che non brucia, cosa c’è di integro, se ancora qualcuno non mangia, non ha una casa, guarda impotente i figli che agonizzano?
- Perché non parli, Nazareno, cosa vuoi che faccia? Non capisci che c’è una tradizione, un sistema che mi tiene prigioniero, e la mia croce è non poter lasciare la gabbia dorata che mi angoscia, che mi toglie il respiro?
Cos’è che non brucia se qualcuno non può coltivare i propri campi o deve chiedere permesso per spostarsi da una città all’altra o assiste senza potersi ribellare alla distruzione della propria casa?
- Perché non rispondi, Nazareno, che cosa faresti, cosa diresti al posto mio?



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