Un autentico incubo kafkiano, una storia autobiografica che risale a 160 anni fa, prima che scoppiasse la guerra civile americana: quando la schiavitù era un ottimo affare e la pratica schiavista il vero propulsore dell’economia negli Stati del Sud. Pubblicato nel 1853, 12 anni schiavo era stato scritto da Solomon Northup appena un anno dopo essere scampato all’inferno: lui, afroamericano nato libero nello stato di New York, violinista e benestante, era stato rapito, imprigionato e venduto ai mercanti di schiavi, fino ad essere deportato in Lousiana. In un crescendo di orrore lungo dodici anni, il protagonista passa da un padrone all’altro, da una tortura all’altra: e impara a sottomettersi, pur di sopravvivere. Senza mai rinunciare però alla dignità, alla morale, ai valori di una libertà in cui non ha mai smesso di credere. Perché il suo eroismo è questo: rimanere uomo, lasciare che l’abiezione degli altri non diventi la sua. Restituito infine alla famiglia e alla società, il suo allucinante viaggio nel cuore di tenebra della cosiddetta “peculiar institution” diventerà testimonianza, documento storico, elemento-chiave nel dibattito successivo sul futuro della schiavitù. Dopo essere stato un best seller, il libro è poi quasi caduto nell’oblio, rimanendo fuori catalogo per buona parte del ’900. Solo nel 1968 la storica Sue Eakin ha disseppellito la vicenda di Solomon riportandola al centro del dibattito sui diritti civili.
12 anni schivo, il film, da domani nelle sale