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Dopo aver parcheggiato il motorino all'angolo tra via Amadeo, dove abitava al civico 40, e via Palatucci, un gruppo di 8 extraparlamentari di sinistra che lo stava aspettando l'ha aggredito con chiavi inglesi, le famigerate "Hazet 36" che all'epoca andavano di moda come strumento di punizione per i "giovani fascisti".
Soltanto due di loro, Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo, hanno colpito Sergio, gli altri facevano da "palo". Gli aggressori erano studenti di medicina che facevano parte del cosiddetto "servizio d'ordine" di Avanguardia operaia. Non conoscevano Sergio, avevano solo desiderio di mettersi in mostra e ben figurare al cospetto degli altri servizi d'ordine della realtà antagonista milanese.
E' stato un delitto su "commissione". Sì, un delitto, perché Sergio, rimasto in coma, non ce l'ha fatta: il 29 aprile, 40 giorni dopo, è morto in ospedale. Aveva appena 18 anni. Una storia che oggi sembra incredibile. Nella Milano di allora, ma non solo a Milano -anche, e soprattutto, a Roma- era invece usanza comune e quasi accettata.
Era la Milano in cui "uccidere un fascista non era reato", come cantavano gli anti-fascisti di quegli anni. Semmai, è incredibile che l'omicidio sia stato soltanto uno, visto che le aggressioni erano all'ordine del giorno: Peter Walker, Carlo Viaggiano, Danilo Siscovich, Carlo Piancastelli, Sergio Frittoli, Giuseppe Costanzo, Benito Bollati, Rindaldo Guffanti, Rodolfo Mersi, Francesco Moratti, Cesare Biglia, Pietro Pizzorni, sono solo alcuni dei nomi di "fascisti" aggrediti con le spranghe tra il '73 e il '75, tutti finiti all'ospedale in prognosi riservata o addirittura in coma.
In quella Milano, il Consiglio comunale, sindaco compreso, ha accolto la notizia della morte di Sergio con un applauso. Alcuni professori dell'Istituto Molinari, scuola frequentata da Sergio ed abbandonata pochi giorni prima di morire a causa delle continue minacce ed aggressioni, hanno commentato: "Che importa, dunque, se costui era un fascista?".
In quella Milano, si faticava a trovare un prete disposto a celebrare il funerale di un "giovane fascista". Oggi non è più così. Ma la storia di Sergio Ramelli è da ricordare e fa ancora paura. Fa paura che ancora oggi molti intellettuali giustifichino lo squadrismo di sinistra di quegli anni, o che ancora oggi si racconti la menzogna che "Sergio Ramelli era un picchiatore fascista".
Non è vero, come dimostrano gli atti processuali: non aveva mai partecipato a risse. E si era iscritto al Msi semplicemente perché disgustato dai soprusi degli autonomi all'interno della sua scuola. Come quel giorno in cui ha scritto un tema contro le Brigate Rosse ed è stato messo alla gogna e preso di mira da studenti ma anche professori: è stata quella la causa scatenante della persecuzione.
Un paradosso. Fa paura che uno degli aggressori, Antonio Belpiede, abbia fatto carriera e sia diventato pochi mesi fa primario a Canosa, in Puglia. Fa paura che a Milano ci sia una scuola intitolata a Claudio Varalli, una vittima di sinistra che più che vittima è stato aggressore, mentre il nome di Sergio risulta ancora scomodo per molti, troppi.
Fa paura, soprattutto, che ancora oggi esistano autonomi di sinistra che si ispirano agli "idraulici" (venivano chiamati così proprio per le chiavi inglesi che utilizzavano nelle spedizioni punitive) della Milano degli anni '70.
Riccardo Ghezzi
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