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13. Una domanda

Creato il 25 settembre 2011 da Fabry2010
13. Una domanda

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Di tutti, quello che m’inguaiò di più fu Boris, re di Bulgaria.
Le damigelle sono in fila, a scala, coi vestiti bianchi e in testa corone floreali.
Com’ero finito lì? Tutto, piuttosto che in ufficio.
Il sovrano era coperto di medaglie e guardava di sottecchi alla sinistra.
Aveva promesso i sacramenti cattolici e sembrava mantenere la parola.
Dove c’era la regina che smistava sorrisi senza risparmiarsi.
E invece, tornato dall’Italia, celebrò le nozze col rito ortodosso.
Il re sta col cappello in mano, vestito di scuro, la regina è tutta bianca: c’è un motivo per cui l’uomo e la donna sono tenebre e luce?
In terra straniera, lontano da ogni usanza, la continuità possibile era il calore umano, l’amicizia, che non consulta mappe e finisce col comprendere ogni lingua.
Dal grattacielo, la montagna è una torta al cioccolato spruzzata di cannella.
La basilica pullula di auto e uomini in divisa. La sposa scende con il velo al vento, monarchi, ufficiali e soldati attendono pazienti: perché aspettare irrita, predispone al rimprovero, all’alterco; l’unico ritardo ammissibile è quello della sposa.
In Vaticano si scatenarono le maldicenze: vedi, è un buono a nulla.
La villa è quasi nascosta dagli schizzi della fontana enorme, circondata da alberi maestosi.
La marcia nuziale è una musica quasi insopportabile: perché sempre la stessa? Poi dicono che il matrimonio sia la tomba dell’amore.
Capivo che Boris dovesse scendere a mille compromessi.
Sulla città, le nuvole sono un corpo che si apre e lascia uscire il sole.
Un militare armeggiava con un telo: una tenda? Una bandiera? La carta dell’amore, piena di luoghi sconosciuti, dov’è così facile perdersi e non trovarsi più?
Avevo fin d’allora l’idea che i formalismi non dovessero impedire alla gente d’incontrarsi, che niente è più terribile di quando il principio è più importante dell’uomo.
Il cielo è il rovescio della vita: la parte leggera che non riusciamo a liberare, il sogno che rimane in gola, il bacio non dato, la confidenza soffocata da un calcolo qualsiasi.
Gli sposi procedono spediti, come avessero fretta di finire; il velo è una pergamena srotolata su cui è scritto qualcosa che nessuno riesce a leggere.
Boris mi fece un altro scherzo, battezzando la figlia con il rito ortodosso. L’avrei preso a schiaffi, non fosse stato il re. O forse proprio perché era il re, l’avrei fatto volentieri.
Il bosco, invece, è un ventre di donna che promette meraviglie, una pelliccia calda che finge di racchiudere tesori, le labbra umide della memoria, il catalogo dei progetti perduti o interrotti sul più bello.
Dalle finestre, gli invitati salutano: sono l’ombra che si affaccia con gli scoppiettii di invidie e gelosie, la resa amara di chiacchiericci e insinuazioni.
In fondo era un buon diavolo. Quando me ne andai, mi accorsi che i bulgari mi volevano bene e promisi che chiunque di loro avesse bussato alla mia porta, sarebbe stato accolto.
Il castello è accovacciato ai piedi del monte in cui la pietra si trasforma in braccio, in volto, in cuore che batte senza far rumore.
La folla agita all’unisono i fazzoletti bianchi, sorride ai sovrani che procedono con la testa bassa, come rivolgessero alla strada una domanda che arriva troppo tardi.



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