Anno: 2011
Durata: 117′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Cina
Regia: Chen Zhuo
Per capire il perché di un film come Song of Silence, opera prima indipendente, girata con 200.000 dollari circa, bisogna comprendere la situazione attuale del cinema cinese, relativamente al controllo del governo. La Cina non fa una vera e propria promozione del proprio cinema, in quanto ancora attaccata alla tradizione di propaganda che fino ad ora è esistita nel paese. Afferma il regista: “in Cina non è facile fare i film se non ti pieghi al volere commerciale del governo, che non valorizza affatto i registi giovani e indipendenti e anzi li schiaccia”. Il risultato è una pretesa di menomare gli autori con richieste di semplicità e leggerezza. Il cinema cinese (quello della grande Cina, da non confondere mai con Hong Kong) è ingenuo nella sua realizzazione e nella sua produzione. Così come lo è Song of Silence, che però ha nel suo arco due frecce importanti: il coraggio di voler fare e la cultura cinematografica. La bellezza del film sta nell’inconscia voglia di controtendenza dei suoi realizzatori. La storia, quasi un kammerspiel, è molto semplice. Un padre acerbo di una figlia sordomuta si innamora e prende in casa una ragazza dalla vita incerta e sessualmente promiscua. Quest’ultima è paradossalmente un modello per la ragazzina, che vive la sua vita ovattata attraverso i simboli, come in una acquario senza pesci. “ Le due ragazze sono l’una lo specchio dell’altra, sono complementari. Sono nel ruolo sbagliato e si completano nel loro destino infausto”. Chiaramente l’incomunicabilità tra le famiglie (allargate che siano) è tra i temi base di Song of Silence, ma anche il senso di spaesamento e dubbio della popolazione cinese e la conseguente reazione goffa e esagerata rispetto a cambiamenti troppo grandi per essere controllati da un governo, figurarsi dagli individui. “Il problema dell’incapacità di prendersi responsabilità è molto grave in Cina, dove le persone sembrano non crescere mai, essere costantemente immature”.
Chen vuole raccontare, in punta di piedi, delle storie umane, utilizzando il linguaggio di cui è capace, non senza molti limiti a livello di qualità. “È vero, ho dovuto usare un digitale povero e molto spesso sfocato per motivi di budget, ma questo mi ha permesso di essere più vicino alla realtà che volevo raccontare”. Egli riesce anche a infierire su quello che è la Cina di oggi, ovvero un luogo che ha mille opportunità ma non è capace di utilizzarle. Nel film c’è anche il tema dell’aborto, che è comunissimo a quelle latitudini, e in questo caso è l’evidenza di come non ci si possa permettere di aspirare a essere madre. Chen, con la sua protagonista che non può essere madre, sembra dire: “non mi sento pronto a fare il regista perché il mio paese non si sente pronto a proiettarmi verso il nuovo mondo”.
Gianluigi Perrone