TRA DAHAB ED EL-TOR
Oggi spedizione alla città di El-Tor, dall’altra parte del Sinai, per rinnovare il visto. Tra andata e ritorno, circa 400 chilometri in mezzo alle tempeste di sabbia. Mentre si attende la riorganizzazione delle forze dell’ordine, al momento è uno scenario un po’ surreale quello che offre ogni posto di blocco, in cui militari e poliziotti stazionano insieme. Un Egitto paradossale, insospettabile fino ad un mese fa. I controlli dei documenti stranieri si sono fatti più radi del solito: viaggiamo in sette ma nessuno ci chiede di verificare il passaporto con il timbro dell’arrivo. Adesso questo sembra quasi un Paese in bilico tra un mondo obsoleto ed il futuro: poliziotti e militari – poliziotti, militari e capre, sotto le sferzate della sabbia. Ad El-Tor un carro armato, e tutt’attorno ai Ministeri e all’Ufficio Immigrazione ancora queste decine di uomini in due divise. Si ha quasi l’impressione che più calano i turisti, più aumentino i soldati, a custodire città svuotate ed estensioni in attesa di nuovi piani.
Dahab è irriconoscibile: ogni giorno di più pare un villaggio fantasma, i negozianti chiudono sempre prima, i ristoranti sono bui – no, chiusi mai, ma tutti adesso possono solo giocare al risparmio elettrico. Restano, sparuti e sporadici vicino al plenilunio, solo turisti inglesi, gli unici che hanno continuato a partire e ad arrivare. Sarà il primo plenilunio dopo la rivoluzione, tra due giorni. Qui il tempo è più mite che mai, lasciate nell’interno del Sinai le tempeste di sabbia di oggi – sui 22 gradi. Noi locali ci godiamo questo clima da eremo ascoltando il mare e il suo silenzio, consapevoli che durerà poco e che entro marzo quest’oasi irreale si ripopolerà di turisti dalle varie nazionalità. Ma così buia e solitaria Dahab non l’avevamo vista nemmeno dopo il fattaccio del 2006. E a causa di tutti gli scioperi di categoria e dei “motivi di sicurezza”, siamo più isolati ora con banche che non riaprono più e Western Union coi battenti serrati che non durante i giorni della paura.
I beduini dell’area si sono riuniti per esprimere il loro consenso alla rivoluzione e il loro pieno sostegno alle spinte democratiche, pubblicando un video in cui si dichiarano pronti a collaborare e a organizzare ronde laddove nel Sinai fosse necessaria la loro collaborazione (video in arabo qui).
Da quando ho aperto il presente blog ed esprimo il mio parere sulla rivoluzione egiziana in Facebook, oltre a ricevere feedback positivi, ho anche a che fare con italiani spaventati dal terrorismo psicologico così abilmente architettato dai nostri mass media negli ultimi dieci anni. Sull’onda di ciò, ho scritto una lettera indirizzata agli amici arabi riguardo queste paure – in pubblicazione in italiano qui nel post di domani. L’articolo che segnalo oggi invece è di Noam Chomsky, e titola “Non è l’Islam radicale che preoccupa gli Stati Uniti, ma l’indipendenza” (in inglese).
Concludo con un angolo di fantapolitica.
Desidero esprimere qui la mia supposizione riguardo i fatti, dall’ultimo discorso di Mubarak alla comunicazione di Suleiman del giorno dopo, che ha cambiato la storia, fino alla notizia del coma dell’ex presidente, se mi concedete questa congettura basata su puro sentire personale.
La sera del tanto atteso discorso, poi deludente, 10 febbraio, F. inizia a tradurmi frase per frase la prima parte da Al Jazeera in arabo, finché non riesco a sintonizzarmi sull’emittente con traduzione in inglese dal mio portatile. Solo che dopo dieci secondi sgraniamo gli occhi perplessi, rendendoci conto che si stanno ripetendo pari pari le frasi del discorso che il rais aveva tenuto dal vivo in data 1 febbraio, quindi ben 9 giorni prima. Dopo, lentamente, riconosciamo che sono introdotti anche nuovi contenuti (pochissimi), ma ogni tanto ancora risuona una frase che sembra il prodotto di un copia e incolla da quel discorso dal vivo. Notiamo inoltre che il monologo presente, 10 febbraio, è registrato. A conti fatti, noi non vediamo Mubarak dal vivo da ben 9 giorni e per quel che ne sappiamo potrebbe trovarsi anche in Madagascar, a Bali o essere addirittura già morto. Il discorso che di nuovo spiazza tutti, l’11 febbraio, a neanche 24 ore dall’intervento registrato, viene riferito addirittura da Suleiman. Di nuovo: di Mubarak nessuna traccia. Due giorni dopo si diffonde la voce del suo stato di coma. Ebbene, io l’ho sentito chiaramente, ho visto la freddezza del padre padrone alienato, ho visto tutto l’orgoglio granitico di una roccia d’altri tempi che non si lascerebbe intenerire né da un lutto né da uno tsunami. Ora lancio lì una sensazione che è solo mia, ma io non credo che un uomo di tal fatta possa cambiare idea così radicalmente in meno di ventiquattro ore, non credo che quel suo ultimo discorso registrato sia stato totalmente autentico (in quanto ripetitivo ed irreale, quasi non pertinente con il giorno), e infine, se Mubarak davvero è in coma (indotto o meno), non credo fosse ancora cosciente quando Suleiman ha annunciato a nome suo che il potere passava nelle mani dell’esercito.