17 marzo e cervelli in naftalina
Creato il 22 febbraio 2011 da Zfrantziscu
Così come è profondamente ingiusto imporre la celebrazione del 150° a chi non è o non si sente italiano (appartenente, voglio dire, alla nazione italiana pur stando nella Repubblica italiana), altrettanto scorretto sarebbe pretendere che non celebri la ricorrenza chi è italiano e parte di quella nazione. È del tutto legittimo che gli italiani sventolino la loro bandiera, si mettano il 17 marzo la loro coccarda tricolore, difendano la loro lingua, progettino di costituire un Museo della storia italiana, non vadano a lavorare o a studiare il 17 marzo. Purché – ed ecco dove il doveroso amor di patria si trasforma in sciovinismo – non si pretenda di tingere di italianità tutto ciò che è compreso nei confini geografici della Repubblica.Invece, mano a mano che si avvicina la data del 17 marzo, lo sciovinismo tenta di impadronirsi con tutti i mezzi delle coscienze, mostrando, fra l'altro, quanto autoritario possa essere il neo giacobinismo in marcia. Autoritario e fragile, visto che sente il bisogno di ricorrere persino a guitti dall'incerta cultura storica per risvegliare qualcosa che si teme sopito o poco sentito. Chi si sente forte e convinto delle proprie buone ragioni non ricorre a mezzucci e, soprattutto, è naturalmente predisposto ad accettare i diversi da sé e a convivere con essi, nel reciproco rispetto. Succede, invece, che l'affermazione di sé avviene a scapito del diverso da sé. Non solo con gli esiti grotteschi di chi proclama davanti a dieci milioni di persone che Scipione l'Africano era, nel 200 a C, un italiano e che le sue armate hanno consegnato la vittoria “agli italiani”. Ma anche con risvolti francamente intollerabili, come quelli che derivano dallo sproloquio di Umberto Eco che, ieri alle kermesse unitarista “La lingua italiana fattore portante dell'identità nazionale”, è ritornato a insistere sul suo disprezzo per i dialetti. “In dialetto si torna a un universo chiuso, quindi la regressione al dialetto diminuirebbe la possibilità di contatto col mondo”, ha detto. Che la lingua, come recitava il titolo del convegno al Quirinale, sia il “fattore portante dell'identità nazionale” è una ovvietà. Ma lo è per l'italiano così come per il sardo, l'austriaco del Sud Tirolese, il friulano e per le altre lingue non italiane riconosciute come tali non solo dai parlanti, ma dalla Costituzione e da una legge dello Stato. E lo è per tutti quei “dialetti” che si considerano lingua, dal veneto al siciliano al piemontese. Il nazionalismo di dominio è però una brutta bestia, va a testa bassa e non si cura neppure delle sue contraddizioni: solo la lingua della nazione dominante riveste quel carattere di fattore portante di identità nazionale? Ma quando mai? Il presidente della Repubblica ha ieri parlato del percorso dell'idioma italiano che, se pure ebbe un valore identitario già prima che maturasse l'unione politica dell'Italia, cominciò a unificare davvero tutte le classi solo a partire dal decennio giolittiano (dal 1903, per chi non lo ricordasse). Cifre alla mano, il linguista Tullio De Mauro, uno scienziato poco incline alla retorica unitarista, nello stesso convegno ha mostrato come al primo censimento dell’Italia unita il 78% della popolazione fosse totalmente analfabeta. L’istruzione postelementare era riservata ancora parecchi anni dopo l’unità allo 0,9% delle fasce giovani. “Quel 10% di persone che usavano abitualmente l’italiano negli anni Cinquanta [cinquanta anni dopo il “decennio giolittiano”, NdR] è cresciuto nel 2006 fino al 45 per cento”. Altro che diffusione dell'italiano come substrato culturale “unificante”. La lingua italiana era fattore di identità nazionale per il 10% degli italiani negli Anni Cinquanta e per il 45% di essi nel 2006. Guardate un po' a che cosa conduce l'ideologia nazionalista di chi, direbbe il mio amico Cesare Casula, non vuol neppure sapere come, quando e da che cosa sia nato lo Stato italiano e vuol far passare una operazione militare, anche se non solo, ed elitaria per una scelta di grandi masse popolari. Fosse vero quanto hanno detto ieri al Quirinale, con il 68,4% di sardo parlanti e con un restante 29 per cento che comunque lo capisce, il sentimento nazionale sardo avrebbe una estensione totalizzante. L'italiano sarebbe un dialetto residuale, regressivo e sminuente la possibilità di contatto con il mondo. Che questo centocinquantenario stia radendo al suolo la capacità di organizzare il pensiero?
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