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18. L’aratro

Creato il 30 settembre 2011 da Fabry2010
18. L’aratro

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Quando arrivai, mi giocai la carta vincente, il cavallo di battaglia.
Non sai cosa significhi sedersi in fondo all’autobus, nascosti, separati dalla luce del consesso umano.
Parlai della lunghezza, della larghezza e dell’altezza.
Anche se tu, Martin, eri più in alto, il figlio del pastore, rispettato e amato dalla comunità, nel mondo alla rovescia della gente dalla pelle nera.
La lunghezza è l’uomo, la donna, con le loro facoltà, l’intelligenza, la volontà, la libertà, in una parola, la dignità della persona.
La scuola in cui divori libri che ti avrebbero avviato sulla strada giusta, dove tutti dovrebbero incontrarsi, prima o poi.
Avevo toccato con mano quanto ciò fosse soppresso o ostacolato per i neri d’America, considerati bestie, privati dei diritti elementari. Pensavano  fossi un sognatore: le mie idee di pace e di armonia si sarebbero disintegrate nell’impatto terribile con l’atmosfera.
Quando diventasti reverendo, avevi il mondo in mano: chi ti avrebbe fermato?
Vi sembra un sogno poter disporre di volontà, intelligenza e libertà?
Partisti per studiare al Nord, in una delle università più prestigiose che si trovassero negli Stati Uniti.
La lunghezza è rendersi conto che nessuno è più importante di te, come mia madre ripeteva, che hai tutto ciò che serve per gestire la vita, per creare il tuo destino.
Fu lì che conoscesti il messaggio che i tuoi professori avevano bene assimilato e sarebbe potuto esplodere in America, dopo il successo sorprendente in India.
Ma sebbene per noi potesse sembrare un’utopia, la lunghezza non basta: ci vuole la larghezza, l’uscita da sé per incontrare l’altro, perché una vita chiusa in se stessa è una prigione, magari dorata, dove prima o poi ti senti soffocare.
Non potevi immaginare che a Boston ti avrebbe aspettato quello sguardo.
Anche se fossi l’uomo più intelligente, volitivo e indipendente della terra, ma non avessi l’altro, se la mia vita fosse stretta nella camicia di forza dell’interesse personale.
Gli occhi dolci e penetranti che entrarono così facilmente nel tuo cuore.
Se non sapessi guardare al di là dei miei programmi, delle conquiste personali.
La parola ferma e flessibile nello stesso tempo, la capacità di esserci e di attendere.
Se fossi solo io, io, non servirebbe a niente.
Le braccia alzate in segno di vittoria, il sorriso timido e il pianto, in serbo per il giorno che verrà.
E poi l’altezza, perché né io né l’altro siamo sufficienti, è necessaria una presenza che ci superi e che chiamiamo Dio, che altri sentono altrimenti, ma tutti con il sapore della pioggia caduta, della pelle offerta al tepore del camino, della terra che si apre sotto l’aratro del seminatore.



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