di Maria Serra
Dalla nascita dello Stato-nazione, quello per intenderci nato dalla Pace di Westfalia, e dunque dalla nascita dell’ordinamento internazionale quale noi siamo abituati a conoscere – senza pertanto ripercorrere quelle che sono state tappe e caratteristiche delle precedenti entità sovrane -, la storia delle relazioni internazionali è stata determinata nei suoi principali nodi dalla Diplomazia: una macchina che, sia essa condotta dagli apparati preposti o dai Capi di Stato e di Governo, ha sempre risposto alla necessità di salvaguardare il cosiddetto “interesse nazionale”. Un compito oggi che – tra la spinta alla globalizzazione (laddove non sia sovranazionalità) e quella alla frantumazione da una parte, e soprattutto tra nuove tipologie di minacce alla sicurezza dall’altra – si rende sempre più difficile.
L’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle è stato certamente caratterizzato da due successi diplomatici e mezzo, che tuttavia non mancheranno di sortire effetti e conseguenze di diversa natura nel breve-medio periodo. Il primo è quello relativo all’accordo tra USA e Russia sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Bashar al-Assad: un compromesso nato dalle trame del G20 di S. Pietroburgo e che non solo ha sventato il rischio di un attacco statunitense (che non è comunque detto che si sarebbe verificato) e che ha riabilitato in un certo qual modo Mosca (interessata ad arginare il radicalismo islamico che spinge alle proprie porte, come gli attentati di Volgograd di fine dicembre hanno dimostrato) nel gioco mediorientale, ma che lascia comunque aperte numerose questioni, a cominciare dallo stato del conflitto (che a tre anni dall’inizio conta oltre 100mila morti) e da chi delle opposizioni siederà a Ginevra per la Conferenza di Pace il prossimo 22 gennaio. Il secondo successo, di portata storica, è certamente quello riguardante l’accordo sul programma nucleare iraniano, raggiunto circa un mese dopo le prime prove di disgelo tra Washington e Teheran dal 1979. Eppure solo i prossimi mesi daranno realmente contezza dell’implementazione dell’intesa, nonché del nuovo engagement americano nella regione mediorientale evidentemente in stretta connessione sia con il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, sia con una nuova stagione di relazioni con l’infuocato Iraq di al-Maliki, sia con una complessiva gestione delle relazioni con partner chiave: Arabia Saudita, attualmente in uno slancio di assertività rispetto all’alleato americano; Israele, il cui recente accordo sulla gestione delle acque del Mar Morto con ANP e Giordania lancia un segnale di speranza per un esito positivo dei negoziati israelo-palestinesi; Egitto, dove il braccio di ferro tra militari e forze islamiche allunga i tempi di una transizione democratica.
Relativamente alla regione mediorientale sorge una riflessione sulla Diplomazia turca: la necessità di dover prendere una posizione relativamente al conflitto siriano – per quanto negli ultimi tempi sia sfumata anche a causa di una riconsiderazione dei rapporti con i partner orientali e dell’adesione alla SCO in qualità di membro osservatore – e, soprattutto, gli ultimi strappi con l’Egitto di el-Sisi con il ritiro dei rispettivi Ambasciatori, hanno rivelato l’illusorietà di quella “Zero problems policy toward neighbours” con cui Erdoğan e il suo Ministro degli Esteri Davatoğlu avevano tentato di riconferire al Paese quel ruolo di central country in uno spazio geopolitico verso il quale guardano tutti gli Stati alla ricerca di leadership dopo le cosiddette “primavere arabe”. A salvare Ankara dai mille problemi con i vicini, oltre che da quelli interni, potrebbe intervenire solo l’esito positivo delle trattative con il PKK, l’accordo con il quale è nuovamente in fase di negoziazione dopo la battuta di arresto della scorsa estate. Raggiungere un’intesa entro le elezioni presidenziali fissate per quest’anno salverebbe il leader di AKP dalle numerose critiche mossegli a livello internazionale.
Si diceva inizialmente due successi diplomatici e mezzo. Il “mezzo” è quello riguardante l’accordo di agosto tra le due Coree sulla riapertura del distretto industriale di Kaesong, chiuso pochi mesi prima al culmine delle tensioni scaturite dalla nuova ondata di sanzioni da parte dell’ONU nei confronti del regime di Pyongyang a causa dei test nucleari condotti in febbraio. “Mezzo”, appunto, perché non pare aver messo al riparo dai venti di guerra né il 38° Parallelo, a giudicare dalle dichiarazioni rilasciate da Kim Jong-un già il primo giorno dell’anno, né complessivamente l’Estremo Oriente, nel corso degli ultimi mesi più volte messo alla prova dalle scaramucce – più verbali, nonostante alcune dimostrazioni militari – tra Cina e Giappone non tanto sulle isole contese, quanto sulla capacità nel prossimo futuro di esercitare un certo leverage politico ed economico nel Mar Cinese Orientale e quindi in proiezione nell’Asia-Pacifico.
Risulta poi difficile esprimere un giudizio pienamente positivo sull’azione diplomatica dell’Unione Europea: nonostante l’accordo di aprile tra Serbia e Kosovo sulla normalizzazione dei rapporti rivesta un’importanza storica per la pacificazione nei Balcani e sia il preludio per un nuovo impulso all’allargamento nello spazio ex-jugoslavo, Catherine Ashton non è riuscita ad andare oltre il concetto di Diplomazia come “intermediazione” e si appresta a terminare il proprio mandato più tra ombre che tra luci. Il mancato traguardo dell’Accordo di Associazione con l’Ucraina, il sostanziale rinvio a tempi più maturi dell’Eastern Partnership e il formidabile assist in questo senso fornito a Mosca per il procedere sulla strada dell’Unione Eurasiatica, le difficoltà nel dialogare con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo nonostante l’instaurazione di apposite task force, l’incapacità di agire come attore unitario dinnanzi a scenari di crisi che implicano una difesa degli interessi comunitari come la sicurezza dei confini e la gestione dei flussi migratori, fanno perdere posizioni a Bruxelles nella lista degli attori globali con maggiori “capacità contrattuali” e impone, più in generale, un ripensamento dell’European External Action Service: al prossimo Alto Rappresentante toccherà dunque dar seguito al documento di revisione dell’EEAS dello scorso luglio lasciato in eredità da Lady Ashton, un compito che si lega a doppio filo con la più generale crisi politico-economica con la quale si confronteranno vertici istituzionali completamente rinnovati – in un continuo sforzo di equilibrio tra intergovernativismo e metodo comunitario – dopo le elezioni europee del 25 maggio.
In questo contesto meritano una considerazione l’azione diplomatica francese e il suo scenario di riferimento: l’intervento armato in Mali e le operazioni di counter-terrorism nel Sahel prima, il coinvolgimento nel conflitto nella Repubblica Centrafricana dopo (che si inscrivono perfettamente in continuità con la guerra in Libia e, prima ancora, in Costa d’Avorio), danno la dimensione di un Presidente e di un Paese che sono parsi agire coerentemente con la difesa dei propri interessi economici al di fuori dello spazio comunitario, muovendosi peraltro agilmente in concertazione con le organizzazioni regionali. Eppure spetterà nel 2014 proprio a queste ultime, all’ECOWAS e all’ECCAS, lì dove l’azione dell’Unione Africana resta debole, trovare una soluzione negoziata a crisi africane fortemente in evoluzione, evidentemente con un più efficace coinvolgimento delle Nazioni Unite all’interno delle crisi nella regione dei Grandi Laghi (dal Congo al Sud Sudan). Un discorso a parte si deve infatti fare per la questione maliana, e parzialmente per quella nigeriana, così come per quella somala, dove gli strumenti di azione esterna e deterrenza devono essere modulati allorché la Diplomazia viene a perdere uno dei suoi caratteri principali, ossia la controparte statuale. La sicurezza nel Sahel e nel Corno d’Africa richiedono approcci differenti in ragione della strategicità che essi hanno nelle direttrici dei traffici di armi e droga globali.
Tutto questo restando sul classico modo di intendere la Diplomazia e la conduzione dei rapporti interstatali. Da WikiLeaks al “Datagate” scatenato da Edward Snowden, l’anno appena trascorso ha messo di fatto di fronte alla necessità di rivedere in senso più estensivo le condotte in politica estera e le basi dei rapporti bi e multi-laterali. Lo sviluppo tecnologico e la (in)sicurezza informatica – derivante dalla mancanza di una codifica internazionalmente riconosciuta delle azioni di spionaggio che possono costantemente essere poste in essere -, oltre che l’emergere di nuovi attori (soprattutto non statuali), impone un ripensamento generale delle azioni delle cancellerie, modificando fondamentalmente la portata e le modalità degli strumenti preposti al perseguimento dell’interesse nazionale, sempre più correlato, dunque, al concetto di “sicurezza nazionale”. È chiaro perciò che in uno scenario internazionale sempre più interconnesso la gestione dei canali e dei contenuti informativi in qualsiasi sua declinazione diventa la maggiore sfida per gli attori che contribuiscono a determinare l’“Agenda di pace” e di confidence-building dei prossimi anni e per gli Stati che, in ultima istanza, concorrono ad assumere la leadership globale.
Un Secolo dopo il Primo conflitto mondiale, la Diplomazia si trova dunque costretta a dover ripartire da se stessa. Dalla sua capacità di adeguarsi e innovarsi di fronte alle sfide che questa epoca sta prospettando dipenderà forse la creazione di un nuovo ordinamento internazionale?
Buon anno a tutti!
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
Share on Tumblr