Magazine Opinioni

La Turchia e la gestione dei flussi migratori: quale soluzione?

Creato il 09 marzo 2016 da Bloglobal @bloglobal_opi

turchia-immigrazione-ue

di Filippo Urbinati

La gestione dei flussi migratori, provenienti dalla Siria, e, in generale, dalle aree di conflitto del Medio Oriente, e il crescente numero di richiedenti asilo in Turchia e nei Paesi europei sono stati oggetto di discussione del Vertice straordinario dello scorso 7 marzo tra i leader dei Ventotto dell’Unione Europea e il governo turco. Sull’argomento e in particolare sullo scacchiere siriano, la posizione di Ankara è quanto mai controversa.

Sin dalle prime battute della crisi siriana, nel 2011, la Turchia ha aperto le proprie frontiere offrendo un porto sicuro alle, allora, poche centinaia di sfollati che fuggivano dalle principali aree di combattimento del Paese. La posizione turca, diplomaticamente e militarmente defilata, era quindi orientata a porsi come protettore della popolazione nella convinzione che le ostilità si sarebbero concluse rapidamente con la destituzione di Bashar al-Assad [1]. Con l’inasprimento del conflitto, con l’innesto di ulteriori fattori di disgregazione e con il sostanziale stallo dal punto di vista operativo, la Turchia ha aumentato il proprio coinvolgimento non solo all’interno di una cornice operativa occidentale (come si è visto in occasione del dispiegamento dei missili Patriot e di caccia F16 lungo i propri confini), ma anche intervenendo più o meno direttamente a supporto delle milizie ribelli [2] e mantenendo allo stesso tempo attiva la politica della porta aperta che, nel frattempo, aveva innalzato il numero dei rifugiati siriani in Turchia oltre le 100.000 unità [3]. Negli ultimi 18 mesi, mentre in Turchia il numero di rifugiati registrati raggiungeva la cifra record di 2,5 milioni di persone [4], un numero crescente di richiedenti asilo raggiungeva il territorio dell’UE per lo più attraverso i confini sud orientali dell’Unione, il cui principale punto di accesso è l’isola di Lesbo, in Grecia.

La complicata gestione di tali flussi, cominciati quando l’Europa era alle battute iniziali della fase di ripresa dopo la crisi economica e finanziaria, è diventata in breve tempo un elemento estremamente divisivo all’interno dell’Unione tra chi ha deciso di rafforzare le proprie frontiere, di estenderne i controlli, o di sospendere il Trattato di Schengen e chi, come la Germania, che ha optato per un programma di accoglienza chiamato “Refugee welcome” [5] e, successivamente, ha sponsorizzato un accordo con la stessa Turchia per la gestione ordinata dei flussi. Il testo approvato dal COREPER (il Comitato dei Rappresentanti Permanenti degli Stati dell’UE) lo scorso 3 febbraio, che si muove sulle basi di quanto era stato delineato a margine del Consiglio europeo di ottobre e della successiva visita di Angela Merkel a Istanbul, prevede un trasferimento alla Turchia di tre miliardi di euro da utilizzare per migliorare le condizioni di vita degli esuli siriani in territorio turco, per contenere il flusso migratorio e dovrà essere finanziato per un terzo dal budget comunitario e per due terzi dagli Stati membri in ragione del loro reddito nazionale lordo. Inoltre l’accordo prevedrebbe anche un flusso controllato di migranti dalla Turchia all’Europa e verso la Germania in particolare.

immigrazione-posizioni-europa

Dal punto di vista turco la negoziazione di un accordo più ampio, quale è stato discusso nel Vertice di Bruxelles del 7 marzo, appare una soluzione ottimale in base ad una serie di obiettivi politici ed economici [6]. Innanzitutto dividere i costi dell’accoglienza dei migranti: per quanto sia molto difficile stimare in maniera precisa l’ammontare dei costi sostenuti dal Paese, specialmente per quel che riguarda coloro che vivono al di fuori dei campi attrezzati, la cifra pare oscillare attorno ai 35 miliardi di dollari [7]. La necessità di alleggerire l’incidenza di tali costi deriva dalla constatazione per cui la possibilità di chiudere le porte in maniera decisa non sia un’ipotesi effettivamente praticabile per Ankara. Interrompere l’accoglienza significherebbe rinnegare la politica perseguita dall’AKP sin dallo scoppio del conflitto, oltre che perdere l’unica leva posseduta da Ankara per incidere sul contesto post-bellico. L’ascesa dello Stato Islamico (IS) ha infatti fortemente depotenziato le pretese di coloro (Arabia Saudita e Turchia) che, pur con diverse motivazioni, non vorrebbero una permanenza di Assad al potere. L’uccisione di cittadini occidentali, con la seguente diffusione delle testimonianze video, e gli attentati sul suolo occidentale, hanno infatti spinto molti Paesi, non ultimi gli Stati Uniti, a rivedere la propria ferrea contrarietà alla permanenza di Assad al potere, aprendo la strada peraltro ad un intervento diretto di Mosca a sostegno del Presidente siriano – oltre che a protezione delle basi russe presenti sul territorio – e al consolidamento del Rojava. Tale entità autonomista, costituitasi nella zona settentrionale della Siria e abitata prevalentemente dalla popolazione curda, è guidata dal Partito dell’Unione Democratica (PYD), una formazione marxista indipendentista molto vicina al Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) operante in Turchia, e difesa militarmente dalle milizie dell’Unità di Protezione Popolare (YPG). Acquisita una forte autonomia fin dai primi anni della guerra, la leadership del Rojava ha saputo approfittare delle circostanze ponendosi come bastione contro l’avanzata di Jabhat al-Nusra (formazione legata ad al-Qaeda) e dello Stato Islamico (IS) e quindi come alleato di fatto, seppure non sancito ufficialmente, di Mosca e Damasco. Allo stesso tempo l’ascesa dell’IS ha costretto la Turchia ad esporsi apertamente contro questo stesso e ad iniziare una campagna di bombardamenti mirati, diretti per la verità anche contro le roccaforti del PKK in Siria e Iraq. In questo stato di cose, qualunque possa essere la conclusione del conflitto, l’unica carta che resta da giocare alla Turchia per non vedere realizzato uno scenario a lei completamente sfavorevole è proprio quello dell’accoglienza fornita ai rifugiati durante la guerra e della presenza di un alto numero di cittadini siriani sul proprio territorio.

Le trattative con l’Unione Europea sono in secondo luogo funzionali a sbloccare alcune questioni che da tempo rientrano tra gli scopi di Ankara e che le permetterebbero di tornare all’interno del framework europeo. Innanzitutto la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi: tale obiettivo è evidentemente dipendente dall’ottenimento dello status di “Paese sicuro”. Tale nodo appare particolarmente difficile da sciogliere alla luce dei recenti attentati avvenuti in tutto il Paese, dell’accusa a lungo circolata nei media occidentali sull’eccesiva indulgenza nei confronti dei foreign fighters e della tuttora non risolta questione dei diritti spettanti alla popolazione curda [8]. Dall’altro lato, la Turchia punta a riaprire nuovi capitoli all’interno dei negoziati di adesione, in particolare quello riguardante “Giustizia, Libertà e Sicurezza” (capitolo XXIV) che, nelle parole del capo negoziatore turco con l’UE Volkan Bozkır, è necessario discutere prima del prossimo giugno, cioè prima che entri in vigore il re-admission agreement [9] (l’accordo secondo il quale i migranti entrati illegalmente all’interno dell’UE passando per la Turchia dovranno fare ritorno sul suolo turco). Tale condizione, secondo il negoziatore, fornirebbe una base legale tanto per la discussione sui migranti quanto per un’efficace implementazione dell’accordo. La questione però è complicata dal fatto che la riapertura del XXIV capitolo è soggetta alla rimozione del veto da parte della Repubblica di Cipro, tradizionalmente ostile all’ingresso della Turchia nello spazio comunitario in virtù della questione della Repubblica Turca di Cipro Nord. Dopo il fallimento di un referendum sull’unificazione (che sarebbe dovuta avvenire secondo un piano elaborato dall’allora Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan) la Repubblica di Cipro, costituita dalla maggioranza greco-cipriota, ha aderito all’Unione Europea indicando il ritiro del contingente militare turco dall’isola, e il riconoscimento della repubblica greco-cipriota, come prerequisito irrinunciabile per il proseguo dei negoziati.

La Turchia mira infine a ottenere una riabilitazione internazionale: essa ha infatti perso una parte importante del proprio ascendente internazionale e regionale a seguito di alcuni avvenimenti. In primo luogo le dinamiche innescate dal conflitto siriano hanno rivelato il sostanziale fallimento della politica “Zero problems policy toward neighbours”, vero e proprio manifesto della politica dell’AKP sin dalla sua ascesa e impersonata dall’ex Ministro degli Esteri, oggi Primo Ministro, Ahmet Davutoğlu. Tale politica mirava a coniugare il tradizionale approccio kemalista (sintetizzabile nel motto di Atatürk “peace at home, peace abroad”) con l’impianto neo-ottomano secondo cui Ankara sarebbe dovuto diventare il punto di riferimento, e un modello da seguire, per tutti i Paesi dell’area mediorientale attraverso l’instaurazione di relazioni pacifiche e costruttive con tutti i vicini. Il collasso dei rapporti con Assad, fiore all’occhiello della politica turca prima del 2011, e le fragilità statuali evidenziate all’indomani delle cosiddette Primavere Arabe (Egitto innanzitutto), hanno incrinato fortemente le potenzialità del modello turco e hanno segnato una perdita di influenza in numerosi scacchieri sub-regionali. Il secondo avvenimento che ha contribuito a minare la credibilità del Paese nei contesti internazionali e il già accennato problema dei foreign fighters, i quali hanno trovato nella Turchia una sorta di porto franco da e verso la Siria. Ultimo, ma non meno importante, fattore è la crescente deriva autoritaria interna, specialmente sul versante della limitazione dei diritti delle minoranze curde e della libertà di stampa, come dimostrato dall’interruzione più o meno continua dei social network, dall’arresto dei giornalisti – turchi e stranieri – e di attivisti per i diritti civili, ufficialmente accusati di terrorismo o di favoreggiamento dello stesso, nonché dalla recente decisione della magistratura di porre sotto sequestro alcune testate giornalistiche come “Today’s Zaman” e “Cihan” [10].

Alla luce di questi obiettivi il governo di Ankara preme per giungere alla conclusione di un accordo in tempi rapidi sottolineando l’urgenza della crisi. Il capo negoziatore Bozkır ha sottolineato come ad un ritardo nell’erogazione degli aiuti seguirà un eguale ritardo nell’implementazione delle misure anti-immigrazione [11], mentre un report trapelato nei media, poi smentito dallo stesso Erdoğan, rivelava di una conversazione tra il Presidente turco, il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il Presidente della Commissione Juncker in cui il leader dell’AKP avrebbe minacciato di inondare l’Europa “con autobus carichi di migranti” qualora non si giunga ad un accordo [12].

Nella situazione attuale due prospettive si aprono per i decision makers europei. La prima, quale è in essere, è trattare direttamente con la Turchia per cercare di mettere ordine nella gestione dei flussi migratori. Tale strategia, necessaria per limitare il più possibile le perdite di vite umane, non è però priva di costi: innanzitutto sancire il ruolo della Turchia come gatekeeper d’Europa significa, almeno in parte, negoziare con alcuni valori considerati come fondamentali all’interno dell’Unione (quali la libertà di stampa e i diritti delle minoranze) [13]. Inoltre una rivitalizzazione della questione dell’adesione rischia di incontrare l’opposizione di alcuni Paesi storicamente contrari all’ingresso della Turchia in Europa, primo tra tutti Cipro. Infine l’arrivo di nuovi migranti, seppur con flussi limitati, rischia di incrinare i delicati equilibri nei tessuti urbani europei imponendo dei costi sociali ed economici legati all’accoglienza difficili da giustificare all’elettorato all’indomani degli attentati di Parigi e degli episodi avvenuti a Colonia [14].

La seconda prospettiva è che l’accordo fallisca e il prossimo summit sul tema, previsto per i prossimi 17-18 marzo, si trasformi in un nulla di fatto. In questo caso non è da escludere l’ipotesi che l’afflusso di migranti continui ad aumentare avvalorando l’ipotesi di coloro che sostengono che la Turchia abbia cinicamente manipolato i flussi migratori ospitando per lungo tempo ingenti quantità di sfollati per poi favorirne la fuoriuscita massiccia come leva per ottenere concessioni dall’Europa [15]. In un contesto in cui il sistema delle quote sembra incapace di decollare perché osteggiato dagli interessi di numerosi Paesi, l’Europa rischierebbe di diventare, anche a causa del blocco posto dagli Stati della cintura sud-orientale una fortezza sempre più inespugnabile.

* Filippo Urbinati è OPI Contributor 

[1] N. Bakri, Turkish Minister and Other Envoys Press Syrian Leader, “The New York Times”, 9 August 9, 2011.

[2] A. Bozkurt, Turkey’s mistakes on Syrian refugees, “Today’s Zaman”, February 22, 2016.

[3] Ibid.

[4] M. Yetkin, Hypocrisy over Syrian Refugees, “Hurriyet Daily News”, February 11, 2016.

[5] S. Ott, Germany: 800,000 refugees – and then what?, al-Jazeera, September 9, 2015.

[6] J. Elgot, H. Siddique, Migration summit: EU prepared to give Turkey extra €3bn – as it happened, “The Guardian”, March 7, 2016.

[7] A. Bozkurt, cit.

[8] Merkel apre alla Turchia su status “Paese sicuro”, askanews, 16 ottobre 2015.

[9] M. Yetkin, Turkey wants to open key chapter before re-admission, “Hurriyet Daily News”, February 8, 2016.

[10] N. Ognianova, Erdoğan Vs the press: Insult law used to silence president’s critics, “Committee to Protect Journalists”, July 6, 2015.

[11] Minister warns on delay in EU funds, “Hurriyet Daily News”, February 5, 2016.

[12] Turkey’s Erdoğan threatened to flood Europe with migrants, leak reveals, “Today’s Zaman”, February 8, 2016.

[13] S. Demirtaş, The EU sends Turkey a very wrong message, “Hurriyet Daily News”, October 24, 2015.

[14] Nella notte di capodanno del 2016 circa 80 donne si sono rivolte alla polizia denunciando molestie sessuali avvenute nei pressi della stazione. In tutti i casi i molestatori apparivano come arabi o nordafricani. M. Chambers, Germans shaken by New Year attacks on women in Cologne, January 5, 2016.

[15] G. Dottori, Migranti come armi?, Limes – Rivista Italiana di Geopolitica, n°9/2015, p. 193.

Photo credit: Murad Sezer, Reuters/Contrasto

Share on Tumblr

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog