di Lucianna Argentino
“Sì, pensavo: viviamo
senza futuro. Questa è la cosa strana:
coi nasi schiacciati contro una porta chiusa”
(Virginia Woolf, gennaio 1941)
°°°
“E’ ora di smettere il monile
d’ambra, di mutare
il lessico, di spegnere
il lampione sulla porta…”
(Marina Cvetaeva, febbraio 1941)
***
E’ il crepuscolo della colomba,
la luce si sveglia, sbadiglia stanca,
la collina, nuca della notte in ritirata,
non si volta all’impaziente gemere della terra.
Gli uccelli cercano un pertugio nell’oscurità,
ordiscono la trama aerea di questo falso inizio
ora che è eterna la notte, contraffatta la vita
e il gallo ha smesso di cantare.
Gli alberi sentinelle lungo trincee dove il respiro
tenta un innesto alle radici
osservano il vano rassettarsi del tempo
e i fili di fumo in fuga dai tetti sono incenso offerto a un dio fuggito via.
L’aria benedice il mattino lo asperge di rugiada,
deterge i gomiti sfiniti della luce.
L’erba duratura del distacco insegue la pazienza.
***
Ho conosciuto la bellezza
quando è unita alla verità,
ho assistito al loro casto amplesso,
al lampo della loro combustione
abbaglio felice nel cerchio perfetto dell’occhio.
Ho sentito il nostro essere posti tra la meraviglia
e il pericolo, pregni dello stupore
dell’incarnazione, del suo essere peso
sull’intera ossatura della vita, su noi ponti intimoriti
aggrappati a un’unica sponda.
La realtà è troppo forte
e per tutta la vita l’ho sentita addosso
ne ho sopportato ciò che nelle mani
trova la misura per la nostra sopportazione,
il deposito delle ali per il respiro
incalcolabile e attonito
eppure così simile a un sorriso
così vicino alla quotidiana agonia del mondo.
Tutto è troppo umano insostenibilmente umano
questa è la tragedia, ora che mi esonda in petto la storia
e l’aria odora dell’irreparabile.
Tutto è perso, è freddo, fame, bombe, miseria,
tutto è disordine e pure il cielo è genuflesso
sul nostro cuore sbeffeggiato dal male
chiuso nella dissimmetria tra la cassa toracica
e l’orbita infinita attorno a corpi terrestri
umanamente dediti all’infelicità.
In ebraico umano ha la stessa radice di incurabile
creature nate con un cuneo di tenebra piantato in petto
con certe ricadute in un dolore senza coraggio,
piccolo da stare tutto sulla punta delle dita
o nella coda mozzata della lucertola
che danza il suo disprezzo al come vanno
le cose nel mondo, alla giustizia della natura
che si manifesta nella schiusa delle uova,
nel riverbero che del sole fa una pozza d’acqua
aggiungendo luce a luce
mentre in noi la luce muore,
al buio sono le nostre mani senza strumenti
contro l’oscurità del futuro.
Incurabile e ignominiosa la vita ostile
con le sue forze impudiche e intemperanti
a frugarmi sotto le vesti
a convegno sul mio corpo offeso e disfatto.
Ricomposto pagina dopo pagina
con fatica frase dopo frase ho atteso al compito
di dare unità a ciò che accade
perché perdesse il potere di farmi del male,
ho rimesso assieme i frantumi
contesa da euforia e malinconia profonda.
Stato crepuscolare acuto
quando precipitavo dove la vita si fa concava,
rotolavo come una pallina in un catino
era la vertigine dell’onda in balia del mare.
Fu in quel tempo di transizione dal reale al possibile
che mi prese il pensiero di disincarnare
fare a meno del corpo come le parole
che pure un corpo ce l’hanno, hanno mani leggere e robuste
e stanno tutte nella pienezza della pronuncia
nell’inchiostro che le rende durature e visibili,
nella pagina epifania di storie.
Disincarnarmi e lasciare che il cuore sia quello che è
l’eco della voce di Dio dentro se stesso
mentre creava il mondo e vedeva che era cosa buona
il mondo prima che fosse consegnato nelle nostre mani
le nostre mani prima che lo privassero della giustizia;
il cuore macina che tutto frantuma, tutto sbriciola
perché sia commestibile la vita e sia grazia
ciò che spinge il sangue alla risalita
dentro questa corteccia aspra
con l’orgoglio delle parole a ricucire gli strappi
parole ormai fili logori su cui non ho più potere
né so più trovare frasi perché le cose esistano
perché emerga il reale dietro le apparenze.
Io che scrivendo mi riconciliavo col mondo
del mondo divenivo padrona:
del merluzzo e delle salsicce per la cena
del disordine della casa
ma mai mai della mia vita, del mio io vasto
io che sentivo il peso di ogni parola sulla pelle
sono stata una dilettante nell’arte della vita e dei sogni.
La disperazione non mi inghiottirà, mi dicevo,
ma la solitudine è tanta tanto è lo sconforto
nel sangue denutrito.
***
La cosa che dura per sempre ho cercato,
trasformare il momento in ciò che permane,
ciò che non muta contro ciò che è fugace e fugge
ed è come me esile parvenza in un tempo frantumato,
in giorni tenuti su con mani tremanti.
Spento è il faro, sparpagliate le onde,
e dietro l’ovatta non vedo più il disegno
né me stessa dentro il disegno, né un dove, un luogo
in cui richiamare il mio io, poterlo ancora narrare
ritrovare la concordia, il confine tra me e il mondo.
Solo le voci di nuovo, di nuovo quelle a tormentarmi
a imbavagliarmi le mani con il loro vociare confuso,
ronzio senza sacralità che mi profana la mente
in assenza di dèi e della loro lingua a cui
in un tempo semplice obbedivamo.
Obbedire: udire stando difronte a qualcuno
- l’etimo esatto della scrittura.
Le voci – crepitio di pensieri inadeguati -
mescolate al canto trasparente dell’Ouse
a cui mi unisco perché finalmente anch’io sia trasparente e nulla.
Faccio la cosa migliore, l’unica cura possibile
battezzo la mia vita dal rovescio,
lascio che l’azzurro reciti la professione di fede al posto mio
affondo con le vele spiegate,
i sassi nelle tasche pegno e viatico
peso necessario per chi si è rinnegato
per l’acqua amnio in cui respirare di nuovo
lontano da quest’aria che m’annega.
***
Mi hanno chiamata Marina
ma è la montagna che amavo
di marino ho avuto il cuore
con le sue maree, i suoi umidi umori,
le mareggiate, la sua vita di oscuri fondali.
Ero una vetta eppure m’infrangevo
sugli altri, sui loro corpi, sulle loro anime
dentro i loro occhi mi frantumavo
io dei marginali e dei sospetti,
io la soldatessa bianca, così mi chiamavano.
Quando l’amore era nido e stella,
quando la poesia sgorgava da tutto il creato
e con questa condanna, con questa forza
credevo di poter controllare qualunque essere vivente,
il vibrare silenzioso delle cose
ma il ferro no, non il fuoco!
Non questa guerra, questo orrore
le sirene, i battelli sul fiume pieni di feriti
gli sfollati, sfollata io nell’insignificante
coi miei miseri gomitoli di lana francesi
i loro inutili colori contro tutto il grigio,
tutta la miseria il dolore, la morte.
Dov’è? dov’è lo spirito? che venga!
che mi aiuti, mi salvi!
mi renda di nuovo necessaria la vita!
Mi alleggerisca l’anima ne sfrondi i rami
carichi di pena, venga in me come coloro
che vanno nella casa di un defunto
a raccoglierne gli abiti, gli oggetti
per una nuova distribuzione
di tutto ciò che va e viene tra la terra e il cielo.
La frazione in exstenso di chi resta.
Angoscia è la mia sostanza
perché se il lamento non diventa poesia
l’accompagna fisso il pensiero della morte
che da tempo provo come un abito
ne prendo le misure, ne ritaglio il modello
sulla forma intransitiva del mio dolore
il senso precipuo del mio non abitare più
il bianco del foglio fatto minaccia
e segno di quanto sia grave
non avere terra alcuna, nessuna terra
in cui rimpatriare. Smarrita la fede
la vita è un soliloquio tra gli schiamazzi
della menzogna, tra gli sproloqui di mentecatti
senza riguardo per chi sta sulla soglia,
per chi agonizza nel dubbio
e la voleva ricca di bellezza
ridondante nel vuoto in cui risuona
il canto armonico del principio
e la faceva ubertosa nell’obbedienza
della mano all’udito.
Da lontano – il poeta prende la parola
le parole lo portano lontano…
qui all’altezza del mondo, presso l’alfabeto muto
che solo il corpo può dire senza mentire,
calo quel che resta di me dentro il piccolo pozzo nero
da cui l’occhio attingeva luce e fedeltà al compito
mentre ora trova solo ombra
ne traggo dunque un coraggio diverso
e passi diversi per la cometa ch’è ferma
su nessuna natività che qui tutto muore
che non c’è più famiglia né familiarità.
Non ci sono più pascoli per la mia anima,
per il mio destino ingombrante,
dove è trasalire di cellule a ciò che riconoscono
non per voce di sangue ma per tutto l’amore passato
che parla attraverso il tronco disossato
del mio corpo, la tessitura vescicolare
della lingua per la pace degli eserciti.
***
Ecco settembre scalpitare irrequieto
ne sento l’odore, ne vedo il volto sfocato
laggiù lungo i confini dei campi che ardono aridi
galleggiano sopra un mare calmo di luce e afa
e stanno come una fiera in agguato
che mi fa preda e si nutre della mia fame.
Eppure come una bambina
serro le labbra, non voglio più mangiare
questo tempo che non mi sfama
anzi, mi consuma, fa di me pasto.
Un tempo estraneo ed estranea io
dentro me stessa, che ho perso
lo sguardo capace di penetrare le cose,
di scucire le apparenze, cogliere l’essenza.
Per questo da tempo cerco un gancio,
un corrispondente esterno al gancio
che dentro batte contro le pareti dell’anima
fa del mio corpo una zattera alla deriva
e un approdo di questo trave di legno
bruno come le mie mani
scurite dal continuo sbucciare patate
che non me le bacino più!
ormai sono sconsacrate, com’è sconsacrato il cuore
che la mia preghiera è il cozzare
di un moscone contro il vetro di una finestra
e con queste mani scrivo la mia morte verticale
com’è verticale una montagna, una poesia;
creo l’ultimo gesto, il mio volo d’allodola;
attonita mi brancola in braccio la luce,
il suo seme spento attorciglia la promessa
del fiato disinnestato dalla terra alla controra,
offre il collo all’addiaccio della corda
che avvolgo attorno al gancio
m’assicuro sia ben salda, non ceda, non si sciolga
ma mi lanci di là come freccia
attraverso i sette cieli senza bersaglio
lungo la linea dell’eternità.
***
E’ il crepuscolo del corvo
la terra s’acquieta impoverita ed esausta;
l’eco del vuoto è culla
per il suono che s’annulla
nella mancata armonia,
la sconfinata resa dell’alfabeto
è assunta a orizzonte degli eventi;
la collina, di ritorno, punta gli occhi
sull’ora inerme e senza trasparenza
della vita in dissolvenza,
l’ora del tutto è incompiuto
l’unica possibile per noi
genitori e figli del provvisorio
nell’opera omnia del mondo.
“Sì, pensavo: viviamo
senza futuro. Questa è la cosa strana:
coi nasi schiacciati contro una porta chiusa”