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1941

Creato il 15 aprile 2011 da Fabry2010

1941

di Lucianna Argentino

“Sì, pensavo: viviamo

senza futuro. Questa è la cosa strana:

coi nasi schiacciati contro una porta chiusa”

(Virginia Woolf, gennaio 1941)

°°°

“E’ ora di smettere il monile

d’ambra, di mutare

il lessico, di spegnere

il lampione sulla porta…”

(Marina Cvetaeva, febbraio 1941)

***

E’ il crepuscolo della colomba,

la luce si sveglia, sbadiglia stanca,

la collina, nuca della notte in ritirata,

non si volta all’impaziente gemere della terra.

Gli uccelli cercano un pertugio nell’oscurità,

ordiscono la trama aerea di questo falso inizio

ora che è eterna la notte, contraffatta la vita

e il gallo ha smesso di cantare.

Gli alberi sentinelle lungo trincee dove il respiro

tenta un innesto alle radici

osservano il vano rassettarsi del tempo

e i fili di fumo in fuga dai tetti sono incenso offerto a un dio fuggito via.

L’aria benedice il mattino lo asperge di rugiada,

deterge i gomiti sfiniti della luce.

L’erba duratura del distacco insegue la pazienza.

***

Ho conosciuto la bellezza

quando è unita alla verità,

ho assistito al loro casto amplesso,

al lampo della loro combustione

abbaglio felice nel cerchio perfetto dell’occhio.

Ho sentito il nostro essere posti tra la meraviglia

e il pericolo, pregni dello stupore

dell’incarnazione, del suo essere peso

sull’intera ossatura della vita, su noi ponti intimoriti

aggrappati a un’unica sponda.

La realtà è troppo forte

e per tutta la vita l’ho sentita addosso

ne ho sopportato ciò che nelle mani

trova la misura per la nostra sopportazione,

il deposito delle ali per il respiro

incalcolabile e attonito

eppure così simile a un sorriso

così vicino alla quotidiana agonia del mondo.

Tutto è troppo umano insostenibilmente umano

questa è la tragedia, ora che mi esonda in petto la storia

e l’aria odora dell’irreparabile.

Tutto è perso, è freddo, fame, bombe, miseria,

tutto è disordine e pure il cielo è genuflesso

sul nostro cuore sbeffeggiato dal male

chiuso nella dissimmetria tra la cassa toracica

e l’orbita infinita attorno a corpi terrestri

umanamente dediti all’infelicità.

In ebraico umano ha la stessa radice di incurabile

creature nate con un cuneo di tenebra piantato in petto

con certe ricadute in un dolore senza coraggio,

piccolo da stare tutto sulla punta delle dita

o nella coda mozzata della lucertola

che danza il suo disprezzo al come vanno

le cose nel mondo, alla giustizia della natura

che si manifesta nella schiusa delle uova,

nel riverbero che del sole fa una pozza d’acqua

aggiungendo luce a luce

mentre in noi la luce muore,

al buio sono le nostre mani senza strumenti

contro l’oscurità del futuro.

Incurabile e ignominiosa la vita ostile

con le sue forze impudiche e intemperanti

a frugarmi sotto le vesti

a convegno sul mio corpo offeso e disfatto.

Ricomposto pagina dopo pagina

con fatica frase dopo frase ho atteso al compito

di dare unità a ciò che accade

perché perdesse il potere di farmi del male,

ho rimesso assieme i frantumi

contesa da euforia e malinconia profonda.

Stato crepuscolare acuto

quando precipitavo dove la vita si fa concava,

rotolavo come una pallina in un catino

era la vertigine dell’onda in balia del mare.

Fu in quel tempo di transizione dal reale al possibile

che mi prese il pensiero di disincarnare

fare a meno del corpo come le parole

che pure un corpo ce l’hanno, hanno mani leggere e robuste

e stanno tutte nella pienezza della pronuncia

nell’inchiostro che le rende durature e visibili,

nella pagina epifania di storie.

Disincarnarmi e lasciare che il cuore sia quello che è

l’eco della voce di Dio dentro se stesso

mentre creava il mondo e vedeva che era cosa buona

il mondo prima che fosse consegnato nelle nostre mani

le nostre mani prima che lo privassero della giustizia;

il cuore macina che tutto frantuma, tutto sbriciola

perché sia commestibile la vita e sia grazia

ciò che spinge il sangue alla risalita

dentro questa corteccia aspra

con l’orgoglio delle parole a ricucire gli strappi

parole ormai fili logori su cui non ho più potere

né so più trovare frasi perché le cose esistano

perché emerga il reale dietro le apparenze.

Io che scrivendo mi riconciliavo col mondo

del mondo divenivo padrona:

del merluzzo e delle salsicce per la cena

del disordine della casa

ma mai mai della mia vita, del mio io vasto

io che sentivo il peso di ogni parola sulla pelle

sono stata una dilettante nell’arte della vita e dei sogni.

La disperazione non mi inghiottirà, mi dicevo,

ma la solitudine è tanta tanto è lo sconforto

nel sangue denutrito.

***

La cosa che dura per sempre ho cercato,

trasformare il momento in ciò che permane,

ciò che non muta contro ciò che è fugace e fugge

ed è come me esile parvenza in un tempo frantumato,

in giorni tenuti su con mani tremanti.

Spento è il faro, sparpagliate le onde,

e dietro l’ovatta non vedo più il disegno

né me stessa dentro il disegno, né un dove, un luogo

in cui richiamare il mio io, poterlo ancora narrare

ritrovare la concordia, il confine tra me e il mondo.

Solo le voci di nuovo, di nuovo quelle a tormentarmi

a imbavagliarmi le mani con il loro vociare confuso,

ronzio senza sacralità che mi profana la mente

in assenza di dèi e della loro lingua a cui

in un tempo semplice obbedivamo.

Obbedire: udire stando difronte a qualcuno

- l’etimo esatto della scrittura.

Le voci – crepitio di pensieri inadeguati -

mescolate al canto trasparente dell’Ouse

a cui mi unisco perché finalmente anch’io sia trasparente e nulla.

Faccio la cosa migliore, l’unica cura possibile

battezzo la mia vita dal rovescio,

lascio che l’azzurro reciti la professione di fede al posto mio

affondo con le vele spiegate,

i sassi nelle tasche pegno e viatico

peso necessario per chi si è rinnegato

per l’acqua amnio in cui respirare di nuovo

lontano da quest’aria che m’annega.

***

Mi hanno chiamata Marina

ma è la montagna che amavo

di marino ho avuto il cuore

con le sue maree, i suoi umidi umori,

le mareggiate, la sua vita di oscuri fondali.

Ero una vetta eppure m’infrangevo

sugli altri, sui loro corpi, sulle loro anime

dentro i loro occhi mi frantumavo

io dei marginali e dei sospetti,

io la soldatessa bianca, così mi chiamavano.

Quando l’amore era nido e stella,

quando la poesia sgorgava da tutto il creato

e con questa condanna, con questa forza

credevo di poter controllare qualunque essere vivente,

il vibrare silenzioso delle cose

ma il ferro no, non il fuoco!

Non questa guerra, questo orrore

le sirene, i battelli sul fiume pieni di feriti

gli sfollati, sfollata io nell’insignificante

coi miei miseri gomitoli di lana francesi

i loro inutili colori contro tutto il grigio,

tutta la miseria il dolore, la morte.

Dov’è? dov’è lo spirito? che venga!

che mi aiuti, mi salvi!

mi renda di nuovo necessaria la vita!

Mi alleggerisca l’anima ne sfrondi i rami

carichi di pena, venga in me come coloro

che vanno nella casa di un defunto

a raccoglierne gli abiti, gli oggetti

per una nuova distribuzione

di tutto ciò che va e viene tra la terra e il cielo.

La frazione in exstenso di chi resta.

Angoscia è la mia sostanza

perché se il lamento non diventa poesia

l’accompagna fisso il pensiero della morte

che da tempo provo come un abito

ne prendo le misure, ne ritaglio il modello

sulla forma intransitiva del mio dolore

il senso precipuo del mio non abitare più

il bianco del foglio fatto minaccia

e segno di quanto sia grave

non avere terra alcuna, nessuna terra

in cui rimpatriare. Smarrita la fede

la vita è un soliloquio tra gli schiamazzi

della menzogna, tra gli sproloqui di mentecatti

senza riguardo per chi sta sulla soglia,

per chi agonizza nel dubbio

e la voleva ricca di bellezza

ridondante nel vuoto in cui risuona

il canto armonico del principio

e la faceva ubertosa nell’obbedienza

della mano all’udito.

Da lontano – il poeta prende la parola

le parole lo portano lontano…

qui all’altezza del mondo, presso l’alfabeto muto

che solo il corpo può dire senza mentire,

calo quel che resta di me dentro il piccolo pozzo nero

da cui l’occhio attingeva luce e fedeltà al compito

mentre ora trova solo ombra

ne traggo dunque un coraggio diverso

e passi diversi per la cometa ch’è ferma

su nessuna natività che qui tutto muore

che non c’è più famiglia né familiarità.

Non ci sono più pascoli per la mia anima,

per il mio destino ingombrante,

dove è trasalire di cellule a ciò che riconoscono

non per voce di sangue ma per tutto l’amore passato

che parla attraverso il tronco disossato

del mio corpo, la tessitura vescicolare

della lingua per la pace degli eserciti.

***

Ecco settembre scalpitare irrequieto

ne sento l’odore, ne vedo il volto sfocato

laggiù lungo i confini dei campi che ardono aridi

galleggiano sopra un mare calmo di luce e afa

e stanno come una fiera in agguato

che mi fa preda e si nutre della mia fame.

Eppure come una bambina

serro le labbra, non voglio più mangiare

questo tempo che non mi sfama

anzi, mi consuma, fa di me pasto.

Un tempo estraneo ed estranea io

dentro me stessa, che ho perso

lo sguardo capace di penetrare le cose,

di scucire le apparenze, cogliere l’essenza.

Per questo da tempo cerco un gancio,

un corrispondente esterno al gancio

che dentro batte contro le pareti dell’anima

fa del mio corpo una zattera alla deriva

e un approdo di questo trave di legno

bruno come le mie mani

scurite dal continuo sbucciare patate

che non me le bacino più!

ormai sono sconsacrate, com’è sconsacrato il cuore

che la mia preghiera è il cozzare

di un moscone contro il vetro di una finestra

e con queste mani scrivo la mia morte verticale

com’è verticale una montagna, una poesia;

creo l’ultimo gesto, il mio volo d’allodola;

attonita mi brancola in braccio la luce,

il suo seme spento attorciglia la promessa

del fiato disinnestato dalla terra alla controra,

offre il collo all’addiaccio della corda

che avvolgo attorno al gancio

m’assicuro sia ben salda, non ceda, non si sciolga

ma mi lanci di là come freccia

attraverso i sette cieli senza bersaglio

lungo la linea dell’eternità.

***

E’ il crepuscolo del corvo

la terra s’acquieta impoverita ed esausta;

l’eco del vuoto è culla

per il suono che s’annulla

nella mancata armonia,

la sconfinata resa dell’alfabeto

è assunta a orizzonte degli eventi;

la collina, di ritorno, punta gli occhi

sull’ora inerme e senza trasparenza

della vita in dissolvenza,

l’ora del tutto è incompiuto

l’unica possibile per noi

genitori e figli del provvisorio

nell’opera omnia del mondo.

“Sì, pensavo: viviamo

senza futuro. Questa è la cosa strana:

coi nasi schiacciati contro una porta chiusa”



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