Magazine Diario personale

1992 – Oscar Luigi Scalfaro

Da Iomemestessa

Il 1992 inizia male.

Il 17 febbraio, a Milano, è finito in carcere per tangenti il misconosciuto Mario Chiesa. Come sempre la storia inizia con le banalità. Un corrotto politico di piccolo cabotaggio la fa lunga nel pagare doverosi alimenti all’ex consorte. Questa si spazientisce ed inizia Mani Pulite.

Il 13 marzo, a Palermo, Cosa Nostra ammazza per strada l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima, considerato un traditore. Tre colpi di pistola, mentre sta scendendo dall’auto. Prova a fuggire, morirà bocconi su un marciapiedi uno degli uomini più potenti di Palermo e della Sicilia tutta.

Il capo della Polizia Vincenzo Parisi chiarisce che c’è una lista di politici predestinati pure loro, da Mannino a Vizzini, da Martelli ad Andreotti.

Il 6 aprile, il quadripartito che sostiene il VII governo Andreotti esce devastato dalla consultazione, la Lega di Bossi è al 9%, ma è un dato nazionale. Al Nord è largamente sopra il 20.

Il 25 aprile Cossiga si dimette con due mesi di anticipo, prima che lo dimettano gli altri a mani nudi: il neopresidente del Senato, Giovanni Spadolini, farà da facente funzioni.

Cossiga la tira a tutti dicendo “saranno giorni terribili fino all’elezione del mio successore”. Peggio di Cassandra, la profezia s’avvererà, e accadrà di tutto ed anche di più.

I partiti sono del tutto fuori controllo, la magistratura impazza, il Paese prima è attonito, poi ridacchia, e alla fine perderà la testa.

Il 13 maggio il Parlamento in seduta plenaria sotto la guida del neopresidente della Camera, il novarese Oscar Luigi Scalfaro, comincia a votare.

L’atmosfera è vieppiù serena. Tanto che Pannella chiede a Scalfaro di garantire la segretezza del voto.

Scalfaro, che è un professionista, va detto, e ha il senso del ruolo, a tempo di record, fa allestire dai falegnami di palazzo due cabine di legno foderate con un drappo rosso. Un oscuro missino, tal Carlo Tassi, che circola in camicia nera e non si capisce perchè non venga denunciato per apologia del fascismo (che sarebbe un realto, per la cronaca), rivolto ai banchi della maggioranza urla “ladri!” agitando un paio di manette. Scalfaro tenta di zittirlo, quello si stizzisce e lo informa che nessuna legge lo prevede, e il presidente ribatte: “Ma non c’è nessuna norma che la obblighi a ragionare! Comunque complimenti, lei deve avere un polmone di riserva”. D’altronde Scalfaro è uno non nuovo alla risposta tranchante, noto rimase un suo interbvento ad un Congresso DC: “La festa del socio nella DC dovremmo tenerla il 2 novembre, vista la presenza massiccia di defunti nelle liste degli iscritti al partito.”

Per i primi tre scrutini, ciascun partito vota il suo candidato di bandiera: Giorgio De Giuseppe (Dc), Nilde Iotti (Pds), Giuliano Vassalli (Psi), Gianfranco Miglio (Lega), Alfredo Pazzaglia (Msi), Paolo Volponi (Rifondazione), Norberto Bobbio (Verdi), Antonio Cariglia (Psdi), Tina Anselmi (Rete), Salvatore Valitutti (Pli). Dalla quarta votazione, iniziano i giochi, quelli veri. L’accordo del CAF, acronimo della sacra triade  Craxi-Andreotti-Forlani prevede che Craxi torni a Palazzo Chigi, e uno degli altri due prenda la via del Colle. Si lancia il nome del segretario DC, Arnaldo Forlani, che al quinto scrutinio prende 479 voti e al sesto sale a 496: IL quorum dei 508 è ad un passo, e col senno di poi chissà come sarebbe andato tutto quanto. Ma dal sesto scrutinio i voti cominciano misteriosamente a scendere, impallinato dai franchi tiratori dietro i quali si vede la manina del Divo Giulio e della sua corrente. Perchè i voti alla conta dovrebbero essere 540 voti: e ne mancano 80, e di essi almeno 50 DC.

Il 17 maggio, ormai sbolso, Forlani si ritira.

Sembra tutto pronto per Giulio nostro, che a quel traguardo, sia come sia, tiene davvero.

Ma quel che resta dei fedelissimi di Forlani teme lo strapotere andreottiano e si mette di mezzo.

Il Pds di Occhetto spariglia le carte e propone Giovanni Conso, giurista, cattolico, super partes, presidente emerito della Consulta.

La Dc non ci pensa neppure. I socialisti ci provano con Giuliano Vassalli, e i repubblicani con Leo Valiani. In poche ore vengono bruciati dei pezzi da novanta: Bobbio, De Martino e Martinazzoli.

Riemerge Vassalli con l’appoggio di parte della DC, ma la parte restante è sufficiente a colpirlo ed affondarlo. Questa volta in via definitiva. Forlani, ormai privo di qualunque legittimazione, si dimette anche da segretario DC.

Non resta che una soluzione istituzionale: uno dei presidenti delle Camere, quindi Spadolini o Scalfaro.

Per il secondo si spende molto Pannella, e mai si potrebbe pensare ad una più diversa accoppiata.

Gli andreottiani ricicciano dicendo che anche Giulio è istituzionale essendo in fondo il premier reggente.

Si ritorna a capo.

Sabato 23 maggio, mentre questi allestiscono il loro squallido teatrino, quei pochi italiani davanti alla tv (ed io tra loro), apprendono da un’edizione straordinaria che il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i cinque agenti della scorta sono rimasti vittime di un attentato mafioso sull’autostrada Punta Raisi-Palermo, all’altezza Capaci. Per esser più sicura la mafia questa volta ha fatto le cose in grande ed ha tirato giù direttamente un pezzo d’autostrada.

La notizia è stata anticipata tre giorni prima da una strana agenzia di stampa, vicina all’andreottiano dissidente Vittorio Sbardella, uno che chiamavano “lo Squalo”, per dire: “Manca ancora qualcosa di drammaticamente straordinario. Un bel botto esterno, come ai tempi di Moro, a giustificazione di un voto di emergenza”. L’agenzia è evidentemente ben informata. Andreotti capisce l’antifona alla perfezione e si ritira dalla corsa.

La sera dello stesso sabato Nino Cristofori, un altro andreottiano doc dirà al braccio destro di Occhetto, Claudio Petruccioli: “La strage è un attacco a Giulio”.

Non restano che Spadolini e Scalfaro.

De Mita, presidente della Dc ormai senza segretario, preferirebbe Spadolini: un po’ perchè solidamente anticraxiano, un po’ perché con Scalfaro non corre buon sangue dalla relazione finale della commissione d’inchiesta sull’Irpinia.

Entra in gioco il Palazzo di Giustizia di Milano: arrestato Giacomo Properzj del PRI, un signor nessuno, ma indagato anche un altro esponente repubblicano, Antonio Del Pennino, che invece ha un suo ruolo politico.

Addio Giovannone, primo presidente del consiglio non DC della Storia d’Italia.

Resta Oscar Luigi Scalfaro. Novarese, classe 1918, di origini calabresi, magistrato, padre costituente, fedelissimo di De Gasperi e Scelba, ministro dell’Interno nel governo Craxi, mai uno scandalo, mai un sospetto, di comprovata onestà personale, vedovo da pressoché da sempre, sempre accompagnato dalla devota figlia Marianna.

Tra lui e Cossiga non corre buon sangue. E così, il 25 maggio, al sedicesimo scrutinio: Scalfaro prega il vicepresidente Stefano Rodotà di prendere il suo posto. Per non annunciare la propria elezione.

E’ il nono presidente della Repubblica, eletto con 672 voti su 1002, e un’amplissima maggioranza di centrosinistra: Dc, Psi, Psdi, Pli, Pds, Verdi, Radicali, Rete.

Se la sua morale è cosa nota, il suo moralismo pure. Circolano infiniti aneddoti sulla sua refratterietà alle cose mondane.

Lo scopriremo tuttavia risoluto e laico (soprattutto) nei momenti cruciali.

Pronti via deve nominare il nuovo premier. Si consulta con Borrelli a Milano, prende nota delle inchieste su Tognoli e Pillitteri (il cognato) e chiarisce rapidamente a Craxi che non è cosa.

Nel frattempo, Martelli cerca di fregarli tutti, e di proporsi come il nuovo che avanza. La gratitudine si sa non è di questo mondo.

Ma lui prenderà la sua strada e manderà a Palazzo Chigi Giuliano Amato, che in autunno si renderà protagonista di una manovra massacrante da 93 mila miliardi di lire e del prelievo forzoso del 6 per mille sui conti bancari (nel cuore della notte, come i ladri, in effetti): l’Italia di Tangentopoli è pure sull’orlo della bancarotta.

A marzo Amato e Conso tentano il colpo di spugna su Tangentopoli, ma Scalfaro non firma e rispedisce indietro il decreto. Ad aprile, dopo il referendum che abolisce i fondi pubblici ai partiti, Amato si dimette. Mica per altro, ma ha mezzo governo indagato.

Il 26 aprile Scalfaro ha un’alzata d’ingegno e incarica un tecnico fuori dai partiti: il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi.

La mafia, del suo,, di lì a poco, torna ad attaccare con le stragi di Firenze, Milano e Roma. E in novembre Scalfaro ottiene da Conso la revoca del 41-bis a 343 mafiosi.

Nel frattempo il Presidente nello scandalo dei fondi neri del Sisde congiuntamente a tutti i ministri dell’Interno. Non fa come Leone (di cui ha ben altra caratura) va in tv e si difende: “A questo gioco al massacro io non ci sto: prima hanno provato con le bombe e ora con il più ignobile degli scandali”.

Poi scende in campo Berlusconi. Confiderà Scalfaro che “con i suoi modi mi dava un fastidio persino fisico”. Non si stenta a crederlo: papi e Scalfaro nella stessa stanza, un’immagine da brividi. Non avrà tregua per sette anni. Sempre lì, stentoreo, con la sua erre moscia, la sua retorica, i basettoni, l’aria di quello che dice il rosario.

Ma difende la Costituzione. E dove può la decenza. Davanti a Previti ministro della Giustizia del primo governo Berlusconi è tranciante “Qui quel nome non passa, per senso etico”. Rifiuta le elezioni anticipate reclamate dopo la caduta per mano di Bossi. Dà vita ad un secondo governo tecnico, affidato a Dini .

Per sette anni difende il Parlamento e i giudici, osteggia D’Alema, che s’imbarca nella Bicamerale scendendo a patti con Mr. B. e infine rovescia Prodi per prenderne il posto, con la valida collaborazione di Fausto Bertinotti.

Quello a guida D’Alema è l’ultimo governo Scalfaro.

Nel 1999 quando finalmente termina quella che definirà la “spaventosa e solitaria traversata” se ne andrà senza rammarichi, e senza desideri di rielezione.

Ha fatto il suo dovere fino in fondo.

Un settennato in pillole

Il 19 luglio 1992 a Palermo, in Via D’Amelio, alle ore 17.58 il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta vengono uccisi da un’autobomba. Fuori fa caldo. Io sto passando davanti alla tv quando parte l’edizione straordinaria del tg1. Credo di non aver mai avuto così freddo in un pomeriggio d’estate

Il 26 luglio 1993 la Democrazia Cristiana, la grande Balena Bianca, il partito che dal dopoguerra ha ininterrottamente regnato sull’Italia, piegata dagli scandali decide il suo formale scioglimento per dare vita al Partito Popolare Italiano

Il 27-28 marzo 1994 lo schieramento di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi vince le elezioni sconfiggendo il centro-sinistra dei Progressisti. Come molti, la prendo con classe. E mi metto dignitosamente a piangere.

L’11 luglio 1995 militari serbobosniaci entrano nell’enclave di Srebrenica, e deportano e trucidano circa 7000 bosniaci musulmani: è il cosiddetto massacro di Srebrenica

Il 26 settembre 1996 dopo un lungo assedio i talebani conquistano Kabul. A nessuno potrebbe importare di meno. Impareremo a conoscerli

Il 9 ottobre 1997 lo scrittore, attore e regista italiano Dario Fo viene insignito del Premio Nobel per la letteratura. Un giullare sul tetto del mondo.

Il 7 agosto 1998 Le ambasciate americane di Dar es Salaam (Tanzania) e Nairobi (Kenia) sono colpite da attacchi terroristici di gruppi legati a Osama Bin Laden: 224 morti, oltre 4.500 feriti. Sentiremo ancora parlare di Al Qaeda e del suo leader

Il 1º gennaio 1999 Nasce ufficialmente l’Euro, la nuova moneta europea. Il 1º gennaio 2002 sostituirà le valute dei paesi che vi hanno aderito. Le nostre vite cambieranno.


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