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Creato il 20 ottobre 2014 da Malvino
1. Qualche giorno fa, per biasimare il malvezzo di imbastire paralleli tra ruoli, organi e momenti della Chiesa e quelli che ne dovrebbero essere i corrispettivi in qualsivoglia forma di Stato – tentazione alla quale si cede sempre quando si fa fatica a capire cosa accade in Vaticano – mi sono servito di un passo tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli, nel quale l’incomparabilità dei sistemi è interdetta da una peculiarità del principato ecclesiastico che manca a quelli di ogni altro genere (non sarà l’unica peculiarità, ma tutte le altre concorrono a determinarla, o ne discendono): si arriva a prenderne le redini «o per virtù o per fortuna», ma anche «sanza l’una e l’altra si mantengano». Un modo come un altro per dire che anche al papa più sconsiderato non si può impedire l’esercizio della «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» (Codice di Diritto Canonico, Can. 331): anche se è un perfetto coglione, rimane «il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, 23; Catechismo della Chiesa Cattolica, 882), e niente e nessuno può scollarlo dalla cima del cucuzzaro, finché è vivo. Ogni eccezione a questa regola, peraltro rara, non abbatte la differenza con tutte le altre forme di governo, nemmeno con le altre monarchie assolute, dove può ben capitare che il sovrano venga defenestrato dalla plebe o dalla nobiltà.  

2. Al netto del modo morbido che ha scelto, questo è quanto Bergoglio ha tenuto a precisare nel discorso tenuto in chiusura del Sinodo straordinario su Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, rammentando che «per volontà di Cristo stesso» può decidere come cazzo gli pare, e che ogni documento licenziato dall’assemblea dei vescovi non ha altro valore che quello consultivo. Illuminato da questo memento, l’invito a non lesinare in parresia rivolto al Sinodo in apertura dei lavori acquista un significato ambivalente: da un lato, rimane esortazione a esplicitare senza riserve le proprie opinioni sulle questioni in discussione, di modo che ogni decisione che seguirà prenda ragione del terreno sul quale andrà a cadere; dall’altro, diventa lo strumento col quale il Principe saggia le potenziali resistenze dei suoi subalterni alla decisione cui intendessero esprimere parere contrario, con ciò neutralizzandone di fatto ogni effetto, poco importa se intimidendoli, prima, o demansionandoli, dopo. Anche in questo, come per il resto, la differenza con ogni altro genere di principato è posta dall’inamovibilità di chi regge il governo ecclesiastico, ma qui c’è da segnalare che era dai tempi di Pio IX che non si sentiva un papa rammentarlo ai vescovi, e la cosa è tanto più significativa se si pensa al fatto che Bergoglio ha fin qui esibito piena aderenza a quello spirito di collegialità che dal Concilio Vaticano II in poi fa velo all’inemendabile primato petrino. Segno di debolezza, doverlo rammentare, ma anche prova del fatto che senza obbedienza al papa verrebbero meno non già la sua virtù e la sua fortuna, ma quelle dello stesso principato ecclesiastico, che così smetterebbe di avere la peculiarità gli assicura il vantaggio su tutti gli altri tipi di principati. Ci fosse bisogno di prova in dettaglio, possiamo prendere in considerazione Caffarra, tra i più duri oppositori alla proposta di Kasper, vicinissimo alle posizioni di Bergoglio: al termine del discorso del papa (*), si è affrettato in enfasi di gesto e in trepidezza di verbo, più che esplicito nel labiale, a riconfermare la sua obbedienza a Bergoglio, qualunque cosa vorrà decidere per la pastorale, in culo alle sue solidissime argomentazioni dottrinarie che gli hanno procurato fama di fiero resistente ad ogni novità.
3. Tutto questo rende insensato anche il dibattito che segue alla chiusura del Sinodo straordinario tra gli osservatori esterni alle cose vaticane. Ci si chiede chi abbia vinto e chi abbia perso. C’è chi dice che abbiano vinto gli oppositori alla linea di Bergoglio e chi dice che comunque questa abbia avuto la meglio, non foss’altro perché non si potrà più liquidare certe realtà come perdite della grazia sacramentale o violazioni della legge naturale. C’è chi dice che la partita si sia chiusa in pareggio e che tutto venga rimandato al 2015. Considerazioni che non hanno alcuna solida ragion d’essere e che al più rivelano l’incapacità di cogliere che «dall’ambizione de’ prelati nascono le discordie e li tumulti infra e’ baroni» (Il Principe, XI), ma non fra papa e vescovi: ogni contrapposizione immaginata tra Bergoglio e parte del Sinodo è mera proiezione della mentalità laica su quella clericale, ogni lotta politica che cerca corrispettivo in una disputa teologica o in una controversia dottrinaria non ne trova mai la posta in gioco, prima ancora di non trovarne i modi. I vescovi si azzuffano, quando decidono di far finta, per dare rappresentazione plastica di un dissidio che non è interno alle gerarchie ecclesiastiche, ma ai vasti piani bassi dellecclesia. 

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