Sono sempre stata una nostalgica della camicia di flanella, e per me, da adolescente, il 5 Aprile ha sempre rappresentato un anniversario molto speciale. Non è infatti la ricorrenza di un compleanno, bensì il giorno in cui ci ha lasciato Kurt Cobain. Per noi che siamo nati tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta i Nirvana hanno rappresentato la colonna sonora del crescere: il riconoscersi nella rabbia urlata di “Smell like teen spirits”, il dedicare “Come as you are” al pensiero della persona del cuore, il consumare il walkman e mandare avanti le cassettine con la penna per risentire “Rape me”, “Pennyroyal Tea”, “Polly” o la solitaria e tristissima “Something in the way”. Quando la bruttezza e la sofferenza del passaggio adolescenziale erano più intense, far partire le”In Utero” o il malinconico “Unplugged in New York” erano un modo per esorcizzare quel malessere, per condividere “I hate myself and I wont to die” e superarlo, non essere più da soli ad odiare qualcosa, qualcuno o banalmente il brufolo spuntato al momento sbagliato a rovinare un fugace incontro nei corridoi della scuola. Kurt se n’è andato all’inizio di tutto questo, in una primavera che odorava per me ancora di infanzia, e l’idea che un ragazzo bellissimo potesse soffrire così tanto era parte della bellezza e dello struggimento di quelle canzoni. Una voce sottile che si portava via tutto il resto, e che ha reso quegli anni meno bui, e questi 5 aprile più malinconici. Oggi sono 20 anni. Io non sono più adolescente, Kurt Cobain ne avrebbe compiuti 47. E invece ha deciso di rimanere un teen spirit, e di accompagnare con la sua storia maledetta le molte adolescenze che sono seguite alla mia.
Kurt Cobain è mancato il 5 Aprile del 1994, sotto il nostalgico segno dell’Ariete