Approvate a fine dicembre dal Consiglio dei Ministri le nuove norme sull’uso dei sacchetti di plastica: dal primo gennaio anche i piccoli negozi dovranno abolirli. Da un’inchiesta di Virgilio Go Green, a un anno dalla messa al bando, il bio dimezza la plastica.
Il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro dell’Ambiente Corrado Clini e del ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera, ha approvato nuove disposizioni per i sacchetti biodegradabili, chiarendo il campo di applicazione della precedente normativa e introducendo sanzioni rigorose a tutela dell’ambiente. In particolare, con la nuova norma e fino al definitivo assetto della materia – che verrà stabilito con decreto – viene chiarito che sarà consentita la commercializzazione dei soli sacchetti conformi alla normativa europea sulla biodegradabilità e anche dei sacchetti riutilizzabili nel tempo. Restano al bando tutte le shopper di plastica dannose per l’ambiente. Dal primo gennaio poi l’obbligo si estende anche ai piccoli negozi con sanzioni per chi non rispetterà il divieto.
Rispettando l’obbligo delle cinture in auto e il divieto di fumare nei locali pubblici, gli italiani dimostrano di avere stoffa. Il caso dei sacchetti di plastica conferma la regola e i risultati raggiunti sono importanti: nel giro di soli tre anni le vendite delle sportine sono passate da 12.000 a 5,7 milioni di pezzi con un conseguente dimezzamento della vendita di sacchetti monouso, per giunta “bio” (dati Coop), e il 75% delle persone dichiara di utilizzare borse riutilizzabili. Per difendersi dalle fregature basta stare attenti: se il sacchetto è stampato con il marchio OK Compost o Compostable significa che ha superato tutti i controlli comunitari ed è biodegradabile al 100%, altrimenti è un falso.
Falso bio e norme incerte
I sacchetti ‘bio’ sono veramente bio o, piuttosto, ne esistono versioni contraffatte cariche di plastica non compostabile? Qualcosa rimane ancora in sospeso per quel che riguarda la normativa: non c’è chiarezza, ad esempio, sul momento in cui non si potranno più usare le giacenze di pacchetti in plastica vecchia maniera (che però si è obbligati a distribuire gratis) e sul tipo di sanzioni che toccano a chi sgarra.
Tuttavia, il bilancio complessivo appare positivo. E qualche punto fermo esiste. Da sfatare, in prima istanza, il luogo comune che i sacchetti bio siano inevitabilmente scadenti dal punto di vista funzionale: se di buona qualità e utilizzati correttamente, possono reggere più di 10 chili di spesa.
Per difendersi invece dal rischio di utilizzare sacchetti ‘pseudo bio’ e non compostabili basta fare attenzione: bisogna scegliere le shopperine con sovraimpresso il marchio OK Compost e/o Compostable Logo che possono essere presenti solo sulle confezioni regolari.
Esempi virtuosi, la grande distribuzione
A funzionare da volano della ‘riforma’ che ha anticipato le scelte della Ue e degli altri Paesi della comunità sul tema, è stata probabilmente proprio la politica tutto sommato omogenea e coordinata delle sigle principali della grande distribuzione, massicciamente e coerentemente impegnate a promuovere la svolta. I motivi di tanta virtù? Perché lo imponeva la legge e perché ormai la corporate responsability è un valore a cui tutti i brand rilevanti devono attenersi. E poi perché l’Italia probabilmente sta funzionando come test per capire quello che prima o poi accadrà in tutti i paesi della Ue.
Forse anche per banali ragioni di convenienza. A conti fatti, emerge che i consumatori hanno condiviso la scelta del riutilizzabile: nel 2008 sono stati venduti 450 milioni di sacchetti di plastica tradizionale usa e getta; nel 2011, invece, si stima che saranno venduti 220 milioni di shopper biodegradabili (circa la metà). A questo bisogna aggiungere la vendita delle sportine riutilizzabili che, entro la fine dell’anno, arriverà a 5,7 milioni di pezzi (erano solo 12.000 nel 2008).
Con il passaggio ai sacchetti compostabili, ceduti a dieci centesimi e offerti assieme ad altre opzioni relativamente costose – dalla borsa più rigida riutilizzabile alle sporte in carta – è possibile che alla fine i grandi distributori (nonostante il costo più elevato della materia prima bio) ci guadagnino qualcosa.
Ma va pure sottolineato che questo possibile surplus di vantaggio per i negozianti si accompagni a una gestione più complicata del sacchetto bio, che ha una scadenza, ed è poi strettamente collegato all’eventuale pigrizia e carenza di organizzazione con cui i consumatori reagiscono alla nuova situazione. In sostanza, se dall’altra parte del banco chi compra fa incetta di pacchetti bio senza starsi troppo a chiedere quanto impattino sul proprio conto della spesa, è facile che per la Gdo questo si traduca in un vantaggio più ampio di quello garantito dall’equilibrio precedente.
La reazione dei consumatori
Da una parte, i consumatori dimostrano un alto grado di consapevolezza sulla tematica: il 90% dei cittadini interpellati da una ricerca Assobioplastiche-Ispo del luglio scorso dice di essere al corrente del divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica e, pur facendo confusione sulle caratteristiche delle nuove buste amiche dell’ambiente, è a conoscenza di una norma di riferimento europea sulla biodegradabilità – e parallelamente un livello di appezzamento notevole del provvedimento che manda in pensione le shopper in polietilene (il 94% lo ritiene un doveroso passo avanti nel rispetto dell’ambiente).
Dall’altra, però, la sensazione che emerge dagli studi fatti è che, spesso, l’impegno manifestato a parole rimanga nel limbo delle intenzioni inespresse. Il 15% di chi dichiara di porre estrema attenzione al materiale di cui sono fatte le buste, per esempio, al momento di pagare ammette di non farci più assolutamente caso per distrazione. E a dispetto della simpatia che quasi tutti dimostrano verso i nuovi sacchetti in bioplastica (o forse verso l’idea di sostenibilità, innovazione e riduzione dell’inquinamento che portano con sé), solo il 26% degli intervistati li ritiene migliori rispetto a quelli vecchio stile e addirittura il 73% del campione afferma di romperli praticamente ogni volta che li acquista. A livello pratico, un piccolo disastro (dati Unionplast-Eurisko, aprile 2011).
Per questa motivazione sono le borse riutilizzabili – quelle usate dalle care vecchie nonne – a trionfare tra i banchi di frutta e verdura al mercato ma anche al supermercato, con il 75% di fedelissimi che se le portano dietro ovunque (salvo poi lasciarle in macchina per sbadataggine o chiuse a riposare nella borsa per la fretta). Contro solo il 22% che dichiara di far uso di sacchetti bio e il 4% che preferisce la carta – una soluzione poco sfruttata dai commercianti, sottolinea Confersercenti, a causa dei suoi costi elevati. Numeri che, nonostante la legislazione poco chiara e l’assenza di provvedimenti sanzionatori per chi non la rispetta, fanno ben sperare, dimostrando come i segni di un positivo cambiamento, seppur in versione non ancora pienamente matura, ci siano davvero tutti.
Comportandosi bene, si risparmia: Coop ha stimato che se un consumatore medio prima spendeva 9 euro l’anno per l’utilizzo di 300 shopper usa e getta oggi con lo stesso quantitativo di borse bio ne spende 27. Ma con tre borse riutilizzabili, invece, il costo scende drasticamente a 2,4 euro, e si possono destinare ai rifiuti urbani 5 kg in meno di plastica.