da qui
La facciata della fontana è la scenografia di un palcoscenico: appare, dalla finestra di Marco, come una lastra sottile di polistirolo o di cartone, pronta a lasciare il posto a un’altra immagine. Ora è una macchia gialla contro il cielo di notte, ogni istante è una medaglia a due facce in cui convivono gioia e dolore, angoscia e desiderio. Marco non sa più quale sia la parte giusta: la luce abbaglia, annichilisce, come una droga azzera la coscienza; è il momento in cui rimpiange ciò che sta oltre la lama di cartone, la notte priva pensieri, il nulla in cui il dolore non riesce più a consistere, le Ceres che svuota, una dopo l’altra – tre, cinque, otto -, finché la strada diventa un serpente velenoso che può mordere improvvisamente, baciarlo con le labbra viola dello schianto. Allora non vede più la litoranea, la spiaggia che va a spegnersi nel mare con le luminarie dei locali aperti fino a tardi, ma i bagliori di San Marco, le case a schiera lungo il Canal Grande, i ricami del ponte di Rialto, la lingua della Giudecca come si contempla dal campanile di San Giorgio. Solo al confine tra la vita e la morte, quando l’alcol prende il posto di ogni sfondo, si rende conto che in lui non c’è spazio per la Capitale, è aggrappato agli squarci mozzafiato di Cannaregio, agli spazi di Campo San Polo, e si sente chiamato a seguire quella strada, l’unica sua; anche se continuano a ripetergli che dovrebbe adattarsi, vivere il presente, lui tira dritto, si rifugia sul Ponte dei Sospiri a picco sul Rio di Palazzo, si mimetizza fra gli alberi del Ghetto, si smarrisce nella vastità dell’Arsenale. Solo alla fine di questo lungo viaggio, in cui ogni curva può essere l’ultima, si accorge di fuggire dall’incubo di una vita senza sguardo, senza più parole, di lanciare l’anima abbagliante della sua città contro la notte che cala nel cervello, divise da una lama sottile di polistirolo o di cartone.