Simone de Beauvoir nel 1976 scriveva ne “Il secondo sesso 25 anni dopo”:
“Una femminista, si consideri o no di sinistra, è di sinistra per definizione. Lotta per un’uguaglianza totale, per il diritto di essere importante, valida, quanto un uomo. E’ per questo che l’esigenza dell’uguaglianza delle classi è implicita nella sua ribellione per l’uguaglianza dei sessi”.
Scritta in un periodo in cui “essere di sinistra” aveva valenze rivoluzionarie che non tutte erano pronte a rivendicare ( per estrazione socio-culturale o per “pudore femminile” che convinceva le donne ad essere inadatte alla vita politica ) questa affermazione ha ancora un valore attuale. Nella giornata di commemorazione del 25 aprile 1945, potremmo citarla modificandola così:
una femminista è antifascista per definizione.
Altrimenti non è femminista.
Partigiane italiane
Prima di tutto per un motivo storico.
Ogni volta che incontriamo riferimenti a cosiddetti “femminismi di destra”, legati ad organizzazioni fasciste del Ventennio o contemporanee neofasciste, sappiamo di incontrare un falso.
E’ un falso che il regime fascista valorizzasse le donne. Durante la dittatura mussoliniana le donne, le camerate, erano strumentalizzate solo ai fini di raggiungere l’elettorato femminile e rese partecipi del processo di affermazione del modello dell’ “angelo del focolare” attraverso una politica demografica e di familiarizzazione.
Già nel 1927 con il “Discorso dell’ascensione” di Mussolini alla Camera dei Deputati, le donne sono confinate al ruolo di tutrici della demografia nazionale, destinandole all’unico obiettivo di procreare i figli “dello Stato”, nemmeno propri, ma di una Nazione. Ancor più che prima del Ventennio, le donne sotto il fascismo si ritrovarono costrette nell’ambito domestico e familiare, private anche solo del tentativo dell’emancipazione e di ogni maggiore influenza politica ed economica.
Lunedì 22 marzo su rai3 “La grande storia” ripercorreva tutte le sfumature del Ventennio fascista : dalla propaganda, all’istruzione, alla pubblicità, all’informazione distorta e falsificata fino ad arrivare all’immagine della donna.
Dal documentario, per citare solo l’ultimo dei tanti riferimenti puntuali che potremmo citare, emerge proprio l’esaltazione dell’angelo del focolare, della donna dedita esclusivamente alla casa e alla famiglia, raccontando anche di come Mussolini fosse deciso a cancellare letteralmente le figure femminili altre rispetto a questo ideale. Durante il fascismo, erano persino state fatte bandire dai giornali tutte le immagini di donne con il famoso “vitino da vespa” perché le donne dovevano essere accoglienti e fertili pronte e con l’unico scopo di mettere al mondo una robusta e numerosa prole.
Le donne eccessivamente emancipate, insieme agli omosessuali, le lesbiche, gli scapoli, le prostitute, erano tutti nemici delle politiche demografiche del regime e per questo andavano stigmatizzati ed emarginati in modo sempre più violento.
Il paradosso per le donne del periodo fascista è quello di subire, da una parte, la repressione delle proprie libertà, dall’altra di essere sempre corteggiate dallo Stato che si vantava di aver provveduto alla sostanziale modernizzazione della maternità.
L’istituzione dell’ ONMI, L’Opera nazionale per la maternità ed infanzia, ad esempio, doveva proprio rappresentare la guida del processo di modernizzazione dell’essere madre: fondata nel 1925, sostenuta da cattolici, liberali e nazionalisti, doveva adoperarsi per combattere l’alto tasso di mortalità infantile.
Il vero risultato ottenuto da questo ed altri enti fascisti per la maternità, fu contribuire a rendere le donne semplici portatrici di prole per servire la Nazione, dimenticandone in toto l’identità di cittadine: durante la prima “Giornata della madre e dell’infanzia”, le donne più prolifiche d’Italia, insignite di un’onorificenza, vennero chiamate non per nome, ma per numero di figli.
Sostenere che il femminismo debba essere antifascista per definizione, serve quindi a ribadire un fatto storico, cioè l’oppressione del regime mussoliniano nei confronti delle donne, ma anche altro tipo di considerazione.
Il patriarcato non nasce certo con il fascismo, ma dal Ventennio ad oggi, è tra le sacche subculturali fasciste che ha trovato piena capacità di espressione, nel pubblico e nel privato.
Ad oggi esistono neofascismi anticlericali o conciliaristi, spiritualisti evoliani o con sfumature neonaziste.
Ciò che tiene tutti legati insieme è la triade Dio-Patria-Famiglia, a cui si aggiungono eventualmente Onore, Natura e Razza, lasciando a volte Dio ai più tradizionalisti.
I capisaldi del neofascismo oggi continuano ad escludere il soggetto donna, a considerarlo differente e destinato a diversi ruoli rispetto a quelli maschili. Questo dualismo è fisso ed immutabile e si concretizza nel rifiuto dell’autodeterminazione, nel rifiuto delle differenziazioni di genere, accettando solo il binomio maschio/femmina e declinandosi quindi verso omofobia, lesbofobia, transofobia e costrizione ai generi naturali e culturali imposti.
Manifesti di iniziative neofasciste su maternità e aborto.
L’unico modo in cui il neofascismo prende parola sulle donne è per colpevolizzarle sul tema dell’aborto, per farsi portavoce delle posizioni bigotte più reazionarie o per strumentalizzare il tema della violenza sulle donne ai fini di una propaganda “sulla sicurezza” che fa leva sostanzialmente su un forte e diffuso razzismo e sulla paura di cui chiunque voglia imporre un potere autoritario ha bisogno per emergere.
Dimostrazione del massimo grado di uso strumentale del tema della violenza sulle donne è che i manifesti che istigano all’odio razziale o a farsi giustizia da soli, sono rivolti agli uomini, non alle donne.
Si parla di “tua madre, tua moglie o tua figlia” e la soluzione qual è? Espellere i ROM.
La comunicazione manipolatoria di tali gruppi a volte carpisce la buona fede di persone non politicizzate a cui magari facilmente si dà a bere che la colpa della violenza sulle donne sia del “diverso” e non si dice che la stragrande maggioranza delle violenze nel nostro Paese avviene in casa, per colpa di uomini che le vittime conoscono bene, mariti, padri, fidanzati, fratelli italianissimi.
Manifesti neofascisti strumentalizzano il tema della violenza sulle donne per promuovere razzismo, politica della sicurezza e per parlare agli uomini italiani delle “loro” donne.
Riteniamo fondamentale ad oggi l’approccio al femminismo “intersezionale“, cioè di analisi delle relazioni in base a multiple dimensioni identitarie e modalità sociali di creazione del soggetto: categorie come genere, razza, sesso, classe, orientamento sessuale spesso sono inscindibili nella lotta alle inequità di sistema.
Un femminismo dunque internazionale e multiculturale, che affronti le strutture delle società per scardinare le oppressioni che muovono dallo stesso sistema economico e che si rivolgono contro gli individui canalizzandosi in sessimo, ma anche razzismo e classismo dunque.
Nessuno di questi processi di oppressione agisce indipendentemente dagli altri, così come non vi sono processi di liberazione che possano combattere una sola di queste repressioni, senza essere in sè fallimentari.
Anche per questo dunque una femminista non può che essere antifascista, altrimenti vorrebbe dire lottare forse per i diritti delle donne, probabilmente per donne di una sola “razza” e di una sola classe, accettando implicitamente una storia di repressione dei diritti e delle libertà femminili che ancora oggi si perpetua nelle politiche e gli atteggiamenti del neofascismo contemporaneo.
Il femminismo è antifascista, altrimenti non è femminismo.
Al massimo è “femminilismo”, è rivendicare sterilmente diritti che non intaccheranno minimamente il sistema patriarcale ma che possono far sentire migliori di altre donne, sicure della propria identità nazionale, esprimere un frustrato bigottismo o bene che vada riempire le piazze in nome dell’antiberlusconismo.
La vera domanda da lanciare oggi, proprio per commemorare il 25 aprile, potrebbe allora essere: se il femminismo non può che essere antifascista, l’antifascismo sa di non poter esistere nelle forme del sessismo e dell’omofobia? L’antifascismo deve essere femminista, sennò partecipa delle stesse categorie del fascismo?
La risposta a tutte queste domande, il più delle volte è no.
Nel corso della guerra furono migliaia le donne che persero la vita, subirono torture, che vennero trucidate, che combatterono fianco a fianco agli uomini.
Ed era quello il vero femminismo : collaborare. Uomini e donne uniti a combattere l’oppressore, chi con regimi totalitari privava della libertà di pensiero, parola e azione anche i bambini che nelle scuole sin dai primissimi anni crescevano con il mito del super uomo, con la netta divisione tra maschi e femmine. Futuri soldati per il fronte e future mamme sforna pargoli fascisti.
Donne e uomini partigian*
Ed invece subito dopo la guerra quelle lotte per la libertà che hanno visto uniti donne e uomini si sono perse e dimenticate per ritornare alla famiglia tradizionale, l’Italia partigiana si piegava alla borghesia che relega(va) le donne a signore di casa e regine del fornello e agli uomini patriarchi e machisti.
Ogni uomo nella propria casa si sentiva un perfetto Mussolini : lavare, cucinare, crescere figli erano compiti esclusivamente per donne , immaginario di famiglia tradizionale, purtroppo, ancora troppo osannato e condiviso dai più.
E ogni donna veniva educata con l’idea che l’unico suo scopo fosse quello di trovare un marito, uno che la facesse sentire protetta, quella protezione che il più delle volte si è dimostrata una gabbia dorata dove le donne da sempre vengono oppresse e relegate nell’unico ruolo di madre e casalinga.
Le lotte dei e delle nostr* partigian* e dell’antifascismo sono state del tutto dimenticate per abbandonarci al fascismo più subdolo e latente, un fascismo che non esilia e non fucila ma che ti rende schiava del conformismo, di modelli imposti che omologano uomini e donne dall’aspetto esteriore fino agli ideali, che impone ruoli, che perseguita le diversità e si sente forte a sottometterle e umiliarle.
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