da qui
Sono alle porte di Betania, un villaggio di case in pietra grezza, una chiesa in primo piano e mura basse che scendono appaiate a una strada bianca e polverosa. Si siedono ai piedi di un ulivo contorto, piegato verso terra, oppresso da un peso invisibile. Anche Eleazar è gravato da un fardello che non riesce a sopportare. Yoh’anan e Nathane cercano di scuoterlo, ma è come sepolto in una tomba scavata nella roccia, tra uomini e donne in abiti bianchi, che piangono, le mani sulla faccia, tra urla scomposte di animali di fronte al morso freddo della morte. E’ apparso all’improvviso, come dal nulla, Yoh’anan e Nathane gli corrono incontro, lo abbracciano; da quando è così? dal giorno in cui ci hanno pestato e minacciato, guai se parlate ancora di Yehochoua, è tanto che tace, non mangia, è come morto. Le rocce bianche sono appena increspate da ciuffi d’erba e due alberi secchi, un olivo vinto dal tempo. Yehochoua si volta, si dirige da Eleazar, ci dev’essere una pietra, che non fa passare, né voci, né cibo, né speranza, il mondo può spegnere e uccidere, resta solo una distesa di rocce, il fetore della morte, l’assenza di reazioni; la mano si alza per proteggersi dal tanfo – come ti hanno ridotto, amico mio – ci vorrebbero bastoni, delle leve, qualcuno mi aiuti, Yoh’anan, Nathane, tossiscono, è dura far la guardia a un morto, togliete la pietra, come? faremo come dici, ho intravisto uno spiraglio. Fa un gesto con le braccia, le tira a sé e le lancia con tutta la forza che rimane, le palme verso l’alto, le grida delle donne, uno sprazzo di cielo nel grembo della morte. Si piega, sussurra impercettibilmente: Eleazar, nel nome di Dio onnipotente, poi più forte, vieni fuori! Ora è inginocchiato, forse dubita anche lui, ecco, una mano, la mano di Eleazar, tesa verso il cielo, contro il silenzio delle rocce, contro il ghigno sinistro della morte. Yehochoua la prende, la stringe, piena di polvere e di terra, ti ringrazio, una luce improvvisa, un velo che si apre, come quello del Tempio, in quel giorno, per quel grido.