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28. Un quadernetto nero

Creato il 11 aprile 2012 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su aprile 11, 2012

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La città è vuota: ci siete voi, in una brasserie ai confini del mondo, del tuo mondo, oltre il quale non riesci più a guardare.
- Scrivi un diario.
Cerchi di decifrare i suoi pensieri: ha gli occhi troppo grandi, impossibili gestirli.
- Per quale motivo?
Tira fuori un bloc notes, la moleskine con un elastico scuro per assicurarla.
- Perché dovrei scrivere un diario?
Non risponde nulla. Prendi il notes  e lo apri alla pagina iniziale: c’è una frase in corsivo, difficile da leggere. Ti concentri: Quando gli chiesero cosa avrebbe salvato dalla casa invasa dal fuoco, lui rispose: il fuoco.
- Carina.
Fofner guarda lontano, sarà un vezzo, o un vizio. Cosa farai? Servirebbe a qualcosa annotare la tua vita?
- Finché non scrivi, è come se i pensieri e i sentimenti formassero una matassa ingarbugliata.
La proposta t’imbarazza: cerchi di distinguere le prime idee che ti vengono alla mente.
- Tu scrivi un diario?
Ha gli occhi fissi nei tuoi: provi paura, per un attimo.
- La mia vita la scrivono gli altri: sulle case diroccate, sui davanzali dei pontili.
Ti chini sulla pagina, estrai la penna dal taschino.
- Non pensarci, butta giù quello che passa per la testa.
Ti piace il bianco della carta: spalanca tutte le possibilità, non ti costringe a essere quello che non vuoi. Rigiri la penna tra le dita. Alzi lo sguardo: Fofner ha ancora gli occhi puntati su di te. Ti ci specchi dentro, finché la testa non comincia a girare. Ti avvolge una nebbia fitta, che solo a poco a poco si dirada, mostrando un corridoio dai soffitti altissimi e le pareti chiare. Indossi un grembiule bianco con il fiocco azzurro. Cosa ci fai, da solo? Ti sei perso. Forse sei uscito dall’aula per andare al bagno, è il primo giorno di asilo, non conosci il posto. Le porte enormi sono chiuse, come potresti ritrovare quella tua? Saranno dieci: da dove sei venuto? Ascolti le voci che provengono da dentro, le maestre che gridano, gli scolari che si muovono tra i banchi, non riconosci l’intonazione alterata della tua insegnante, i pianti e le risate dei compagni di classe. Devi scegliere una delle aule, a caso, altrimenti starai qui per sempre. Ti dirigi verso quella che hai davanti. Ti slanci in tutta l’altezza, afferri la maniglia, con prudenza, scostandola appena, in modo da guardare di sbieco nella fessura sottile che si apre. Ecco, ce l’hai fatta. Qualcuno se n’è accorto, la maestra si volta di scatto, grida con quanta voce ha in corpo: chi è là! Sei costretto a entrare, con gli occhi socchiusi, il cuore che batte all’impazzata. Ti fai coraggio e spalanchi lo sguardo sull’aula tutta bianca, piena di alunni col grembiule nero, più grandi di te, sgorbio minuscolo al confronto. Dopo un attimo di esitazione, come obbedendo a un unico comando, scoppiano in una risata acuta, terribile, mentre volano gli epiteti, asino, scemo, dove vai? Sei solo, col grembiule bianco, una lacrima enorme precipita sul pavimento grigio: la puoi vedere, spiaccicata come una pozzanghera in cui si specchiano la vergogna e la paura. Ti senti qualcosa tra le mani, un quadernetto nero, con un elastico per chiuderlo: cominci a scrivere qualcosa, sotto gli occhi grandi di Fofner.


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