Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 14, 2011
da qui
Lascio a voi giudicare tra lui e me, se è lecito un giudizio.
Un albero è un albero, ma è anche vero che ci sono alberi e alberi – fuori della finestra vedevo un cedro che mi faceva compagnia mentre scrivevo versi. Guardavo il cedro e scrivevo, e piangevo, perché se non escono le lacrime, si sa, non ci può essere poesia.
Eravamo diversi in tutto, dicevano che le mie linee erano dolci, quelle sue, dure e spigolose.
Mi concentravo sugli aghi puntuti, il verde inconfondibile, opaco, specchio della mia malinconia, del sentimento che mi prendeva ogni volta che il foglio mi sfidava, forza, che cos’hai da dire, cosa c’è d’importante in te, nella tua vita?
Lui parlava con rapidità, non lasciava il tempo di pensare, perché capiva che la violenza è un impulso, la questione di un momento.
Imparai presto che, se volevo che la pagina si riempisse in fretta, dovevo dimenticarmi del malessere che avvertivo dentro, diventare ago sempreverde, ramo, internodo, foglia grigio-azzurra – come descrivere il colore inafferrabile da cui non riuscivo più a staccare gli occhi?
Predicavo lentamente, perché ogni parola doveva scolpirsi dentro il cuore, scavare una nicchia in cui far defluire il sentimento, di rabbia, di amore o di speranza.
Sentivo l’odore della resina, no, era il tuo odore, quando eri vicina al punto che non riuscivo più a capire quale fosse il tuo braccio e quale il mio.
Ci univa una fame di giustizia, ma ognuno la vedeva a modo suo, perché, parliamoci chiaro, della giustizia si può dire tutto e il contrario di tutto.
Il tronco era robusto – ecco, ora scrivo della paura di non farcela perché eri troppo bella, come fare a distrarsi, a pensare ad altro, per non rovinare tutto e fare la figura del bambino?
Non potevamo sapere che, comunque la vedi, la giustizia è una bomba che esplode tra le mani, perché i nemici sono troppi e troppo forti, si nascondono bene dietro le tende o i balconcini.
Sì, devo pensare ad altro, a scrivere, a riempire il foglio bianco come il ventre molle di resina umida e densa, che inondava il giardino di un profumo che avrei riconosciuto tra migliaia di altri.
Sarà dipeso da cause molteplici, il carattere, l’educazione, l’ambiente che ci aveva plasmato giorno dopo giorno.
C’è un nesso inscindibile tra la scrittura e il cedro, tra l’odore della pagina e quello del mare che riempie le narici, che imperla il vetro della macchina affondata nella sabbia.
Forse era la musica, Malcolm, che sentivamo in modo diverso, che ci faceva lanciare in balli differenti.
E il grigio azzurro delle foglie non era forse l’onda che veniva a battere contro il silenzio della spiaggia, ecco, aspetta, sono arrivato alla fine della pagina, lasciati girare, voglio vederti come lo strobilo che diventa pigna, la malinconia che si trasforma in estasi, l’euforia delle righe che corrono come bimbi che non smettono di ridere, come amanti che sono diventati ormai una cosa sola.
Sì, da bambini siamo tutti uguali, lo stesso sorriso compiacente di chi ha ancora tutto da imparare, ma da grande apprendi subito che il dolore è un fuoco che ti brucia.
Un ardore che consuma ogni barriera, che confonde il foglio col giardino, il tuo ansimare con l’inchiostro che corre senza più fermarsi, il grido col punto che lascia dopo di sé lo spazio bianco del silenzio.