Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 20, 2011
da qui
Le colonne della basilica sono lisce come gambe di donna.
Il bambino è accovacciato per terra, magro da far paura, con la faccia che tocca la terra e un avvoltoio che lo fissa, leggermente ingobbito.
Gli archi sono buchi neri nell’universo della religione, la forma che inghiotte la sostanza, parla come mangi, va bene, va bene, non si aprono falle, ogni volta che vorresti compattare la fede a uso e consumo di interessi inconfessabili?
Aspetta di morire di fame come si attende il turno in farmacia, come la fila sotto la pensilina del Sessanta, in un giorno di pioggia.
Da qui si vede la facciata tutta d’oro, le immagini di Isaia, Daniele, Ezechiele e Geremia, profeti che tuonarono contro il lusso dei potenti, che denunciavano gli sfruttatori dei poveri, venduti per un paio di sandali.
Non riesco a mettermi nei panni, anzi, nelle piume dell’avvoltoio in attesa: ha fame pure lui, ma come prendersela con un bambino come quello?
C’è l’agnello di Dio che non toglie i peccati del mondo, come un prestigiatore da festa di paese, ma li porta, mi sono spiegato? li prende su di sé, mi viene da piangere, a pensarci, a pensare all’agnello di Dio e all’avvoltoio.
Gli scheletri viventi hanno volti pensosi, si domandano perché, ma non trovano risposte. La filosofia, qui, è soltanto una bestemmia.
Sono quattro fiumi che irrigano il cosiddetto paradiso, esclusi alcuni angoli: il Corno d’Africa, la Sierra Leone, la Guinea- Bissau e lo Zimbabwe.
Basterebbe guardarli negli occhi, si aprirebbe un mondo; ma su certi spettacoli il sipario cala sempre in fretta, misteriosamente.
Nel timpano c’è il Cristo che benedice chissà chi, forse è indeciso pure lui, fra Pietro e Paolo che aspettano curiosi gli sviluppi.
I piedi sono troppo grandi, come dovessero portare un peso che non c’è; i denti sporgenti, per masticare un cibo salvifico che non arriverà da nessun cielo.
La facciata appare al di là delle grate, come fosse relegata in un esilio volontario; per vederla meglio ti aggrappi alle sbarre della cancellata: sei tu il detenuto e il grido per la libertà ti brucia in gola.
Anche le mani sono gigantesche, servono a sorreggere la testa, l’unico contenitore a non essere svuotato, che tiene viva la condanna alla lucidità sulle ferite, su un dolore senza redentori.
La statua del santo sembra quella di un cospiratore incappucciato, deciso a far saltare il mondo facendo leva con il suo spadone.
E che salti il sistema bastardo che permette ai bambini di scrutare l’orizzonte, per vedere se i re magi portino qualcosa da mangiare.
Compare e scompare, dietro le colonne, come se la chiesa fosse un posto da cui uscire, una crisalide da cui volare via.
Che salti il sistema bastardo che permette alla madre di tenere fra le braccia il figlio agonizzante, sorreggendogli la testa consumata e carezzandogli l’addome divorato da metabolismi intrisi di veleni.
Fu qui che parlai, nel silenzio generale, tra uomini vestiti di porpora sgargiante e corazzieri in guanti bianchi.
Che salti il sistema bastardo incapace di guardare i resti umani che aspettano in piedi di finire, di andarsene alla volta di un regno dove potrà piangere per almeno due millenni – quanto ci vorrà a smaltire l’ingiustizia universale?
Li lasciai di stucco: sentivano parlare di luna e di carezze, ma stavolta gli annunciai un concilio, come niente fosse: per un momento mi sembrò che il santo incappucciato si voltasse, avesse intenzione di fare marcia indietro, fosse attraversato dal pensiero di tornare.