da qui
Teodora è contenta che Brice Cento non sia morto: è abituata al crollare repentino, al mondo eternamente in bilico, alla crepa inaspettata, nel convento fatiscente ridotto a rifugio per gatti e scarafaggi. E’ il punto di partenza, forse, a evocare scenari di riscatto e redenzione, restauri imprevedibili, esiti salvifici rocamboleschi e sorprendenti. I due rami d’edera aggrappati alla parete sono Brice e Cloe che si dibattono tra piacere e dolore abbarbicandosi alla vita, le brecce nel muro lo squarcio provocato dallo sparo di Vangelis nella schiena del bersaglio preferito, il panno infeltrito sul materasso rancido il manto erboso del bosco intrecciato col muschio e la sterpaglia, che solleticano o graffiano i corpi dei due amanti. Il disordine del monastero è il disordine del mondo: Teodora sa di non venirne a capo, perché ogni volta che ripara un angolo si spalanca un’altra falla, come se vita e universo fossero un precipitare incessante verso il baratro finale, e il lavoro dell’uomo un tentativo patetico di procrastinare il fallimento. Da madre superiora conosce bene l’illusione, l’utopia di cambiare le regole del gioco, di ricondurre tutto a un equilibrio ragionevole fra perdite e guadagni, progresso ed entropia; quante volte si è rinchiusa nella stanza versando lacrime sull’ultimo scacco, la discussione sterile, la maledizione che si ritorce sempre contro chi la lancia; l’ombra sinistra, la macchia umida che avanza fra le mura, è il segno della velleità degli obiettivi umani, la sconfitta necessaria, la verità segreta che coincide col riconoscimento di una fragilità congenita e fatale. Solo adesso comprende che il rimedio si nasconde nell’abbraccio fra Cloe e Brice Cento, l’aggrapparsi disperato dell’edera ai muri scorticati, lo stringersi alle ferite inflitte dalla logica insensata di ogni azione. E’ l’abbraccio dell’arte – pensa -, la vittoria della letteratura, in grado d’inventare effetti inaspettati, scenari inediti di amori incapaci di arrendersi al morso insostenibile del nulla.