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Creato il 06 novembre 2011 da Mapo
Potrebbero chiamarlo "effetto Fantozzi". Quell'amaro in bocca che rimane alla fine di una sonora risata. Perchè la saga ormai storica del ragionier Ugo, si sa, è tutto meno che una semplice commedia. Ci si scompiscia quando questo sovrappeso uomo medio in impermeabile, pesta il naso contro un comodino, quando è costretto a improbabili partite di tennis nella nebbia per compiacere il capo supremo, persino quando impallidisce e si ritrae alla visione della tremende Mariangela, la figlia babbuino. Una comicità grossolana solo in apparenza, lontana anni luce dalla banalità dell'anglosassone e freddo Mr. Bean, che rivela tutta la sua viva crudeltà, colpendoci a fondo, proprio quando, abbassate le difese per la naturale simpatia che si prova nei confronti degli "sfigati", siamo costretti ad ammettere che, almeno un pochino, nei suoi tic quotidiani, quello sullo schermo ci assomiglia. Eccome.
Ed è in quel momento che, solitamente, ci si ferma almeno un secondo, con la scusa di far riposare le ganasce e, da un punto remoto delle nostre circonvoluzioni cerebrali, fa capolino un pensiero angosciante: e se fossimo tutti noi, un po', Fantozzi? Indaffarati e stanchi, vessati dal capoufficio, meccanico, negoziante, medico, controllore di turno, viviamo le nostre vite tragicomiche negli spazi angusti di questa metropoli globale, che ci tenta con le sue opportunità patinate esposte in vetrina ma finisce spesso con il risucchiarci in pericolose spirali di violenza e frustrazione, che ci assalgono impietose, anche nel tiepido delle nostre case. Lo sa bene un autore come Jonathan Franzen, rampante romanziere americano autore, tra gli altri, dello stupendo "Le correzioni" che con una minuziosa precisione degna dei migliori copisti giapponesi, racconta la società americana di oggi (e quindi anche un po' la nostra) mordendo al collo di tutte le sue debolezze. Prima su tutte quella del modello un po' arcaico della cosiddetta famiglia tradizionale, tanto cara ai politicanti che la evocano quasi si trattasse di una figura mitologica, con lo scopo di guadagnare consenso e cui noi italiani siamo particolarmente attaccati.
4 5 6E' in questa cornice che si inseriscono i formidabili attori della serie televisiva Boris (mai avrei pensato di scrivere una frase simile in tutta la mia vita), in scena in questi giorni con il loro 456 al Teatro Franco Parenti di Milano (peraltro uno dei posti più belli e suggestivi della città intera.
Lo spettacolo, recitato in un comprensibilissimo accento/dialetto del sud-italia è un piccolo spaccato della claustrofobica (ed esilarante) vita quotidina di una piccola famiglia di campagna, ignorante e povera. Il salame appeso al soffitto a piombo al centro del tavolo di legno, come si soleva fare una volta per strofinarci il pane o la polenta nella speranza di rubargli almeno un poco del suo sapore, il sugo perpetuo della nonna ormai defunta a bollire sul fornello, inesorabilmente dalla bellezza di 4 anni, il fioretto di non fumare del figlio, appena maggiorenne ma dai tratti già vecchi che vuole compiacere il Signore, salvo poi pentirsene arrivando a improrarlo persino di ucciderlo per liberarlo dal giogo dell'astinenza ("Muorimi!"), e molti altri, sono piccoli dettagli che valgono uno studio sociologico. La risata è continua, fino alla fine. Già, appunto, la fine.Correte a vederlo. 

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