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4. Uno spazzino

Creato il 16 settembre 2011 da Fabry2010
4. Uno spazzino

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Ho fatto di tutto: lo spazzino, il facchino, l’inserviente.
I soldati salgono sui carri, i giovani gridano, corrono, sventolano cartelli che inneggiano alla pace, un gruppo incappucciato alza le torce accese nella notte.
Quando lavori bene, anche se spazzi strade – soprattutto se spazzi strade – lasci che i ricordi sboccino coi petali migliori – la casa dove ogni linea sembra tracciata col pennello, bianca e blu come nel regno delle fate, gli archi ricamati al tombolo, l’ingresso immerso nel verde – perché solo così potrai essere, un giorno, un grande spazzino di strade, e il mondo si ricorderà dei marciapiedi inappuntabili, dell’asfalto dove potrebbe passare più di un anno prima di trovarvi una cicca.
L’esercito interviene, le canne dei fucili colpiscono in volto i dimostranti con la camicia bianca che contrasta con la pelle, come quando, sotto l’albero, s’intravedeva il seno – ricordi? – e per la prima volta ti ho baciata.
Ho ancora negli occhi il divano rosso, il pianoforte, il quadro dei nonni o dei bisnonni a rammentare che la vita è una corsa affannata e finisce troppo presto.
L’uomo che spinge la macchina, la donna che si china sul marito colpito a morte da un cecchino, mentre una folla enorme alza le braccia verso il cielo.
Della cucina-refettorio mi torna in mente il bianco: della dispensa, della tovaglia, delle tende, persino del cestino, come un’ossessione, un contrappasso, come se l’urto dei colori dovesse entrarci nel sangue, nelle cellule – nuclei, mitocondri, ribosomi.
Il cappuccio e la tuta coprono ogni cosa, due fori per gli occhi e guanti neri che avvolgono avambracci e mani, procedere compatti, con le torce accese, lottare perché gli immondi non abbiano diritti.
Anche il letto ha una coperta bianca e quello del bambino, manco a dirlo, bianco pure lui, eppure tu sapevi di cavartela meglio e non saresti mai finito come la cantante morta in ambulanza perché il sangue dei bianchi non si dà a chi non lo merita.
Ecco, lo sguardo diffidente, come se dagli altri, dalla storia, si potessero ricevere soltanto schiaffi, insulti, umiliazioni, buttati fuori dai locali, dalle scuole, dagli uffici, fino alla fine dei tempi.
Tu stavi meglio, molto meglio, tra le case dai mattoni bianchi, con la siepe tagliata a perfezione e l’intarsio elegante sulla facciata principale.
Non c’è niente di peggio di una notte illuminata da una croce in fiamme, dalla luce che spegne ogni altra luce, solo allora capisci il senso della perversione, il nome Lucifero e molte – troppe – altre cose.
Noi, invece, potevamo giocare a battimuro e forse ti avevo vista lì, a passeggio con le amiche, che cosa avevi? lo so che cosa avevi, perché dopo un momento ero già in piedi e gli altri mi chiamavano ma non potevo rispondere e anche adesso che spazzo questa strada, ora che sono forse diventato un grande spazzino di strade e il mondo si ricorderà di me, ancora vedo i tuoi occhi, i tuoi seni, che una croce in fiamme, che gli incappucciati con le torce accese non potranno mai  sconfiggere.



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