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40. La mia storia

Creato il 23 aprile 2012 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su aprile 23, 2012

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Non sai cosa ti è preso: a un certo punto, non ce l’hai fatta più. Fofner ti ha visto alzarti all’improvviso, scostare la sedia e allontanarti come in preda a una trance o a una visione. Rimane là, come l’avevi trovato avvicinandoti alla brasserie; man mano che procedi, senti i suoi occhi farsi più piccoli, non hanno più il potere d’inchiodarti alla tua storia, sono due punti persi in lontananza, come una scritta che non riesci a leggere, come un pontile che visto da così lontano non sembra neanche più un pontile. Ti senti libero, affrancato dallo sguardo che ti obbligava a ricostruire l’intreccio della tua esistenza, a fare i conti col passato, a inseguire i fantasmi delle sconfitte antiche, delle ferite che si riaprono ogni volta con un dolore nuovo. Non ne puoi più. Hai bisogno di stare solo con te stesso, t’infili nel primo bar che trovi, chiedi una birra e ti prendi la testa tra le mani. Quando alzi lo sguardo, ti accorgi di uno seduto al tavolo vicino. E’ davanti a un computer, concentrato come se intorno non ci fosse nulla. Per un momento dimentichi te stesso e le tue angosce. Cerchi di sbirciare, di capire cosa scrive. Se anche ti avvicinassi e ti affacciassi dritto davanti alla schermata, sei sicuro che continuerebbe a scrivere senza accorgersi di nulla. Bevi un altro sorso, sei tentato di chiamarlo, di chiedergli un aiuto: ma un aiuto di che tipo? Cosa potresti aspettarti da un tipo come lui? Che scrivesse la tua vita? Che sciogliesse nella trama di un racconto i nodi che nella realtà quotidiana si rivelano insolubili? Non hai più voglia di prendere appunti sulla moleskine. Magari lui è più bravo: potresti raccontargli i frammenti che brillano nella memoria l’uno dopo l’altro, l’incontro con la ragazza esile e bionda che ti aveva fatto perdere la testa da un momento all’altro, il suo modo di parlare mordendosi le labbra, gli occhi che parevano chiudersi come non volessero vedere qualcosa che potesse ferirli, l’ancheggiare dei fianchi, la maniera di voltarsi che per qualche misterioso meccanismo del cuore ti sconvolgeva sempre. Le prendi la mano, lei si lascia avvicinare, adesso ti dirà ma come ti permetti, ti darà uno schiaffo, griderà che sei il solito maschio che pensa solo a quello, e invece no, sembra piuttosto spingerti impercettibilmente verso le sue labbra. Cosa è successo dopo? Non riesci nemmeno a ricordarlo, potresti chiederlo al vicino di tavolo, forse sono quelli come lui a raccogliere tracce del passato della gente, a ricucire i fili spezzati delle storie, a togliere almeno temporaneamente i segnalini che interrompono ogni volta la lettura della vita.
- Posso disturbarla?
- Mi ha già disturbato.
- Ho bisogno di lei.
- Io non la conosco.
- Mi chiamo Romolo. Ho bisogno di una guida.
- Sono solo una guida turistica, e non sopporto chi mi fa troppe domande.
- Posso raccontarle la mia storia?


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