da qui
Cesare sta studiando il carteggio fra Teodora e Cavedagna, da cui emerge l’assenza di un disegno preordinato: i due si affidano alle intuizioni del momento, all’ispirazione frammentaria, ai colpi di coda del destino. Un tratto di paesaggio, un particolare di architettura urbana, un oggetto balzato in primo piano, orientano le svolte della trama, il bacio, lo sparo, l’incidente, come un concerto rock, in cui la musica è solo la tessera di un mosaico imprevedibile che confonde i colori dello stadio, gli strappi dei jeans, le divise dei carabinieri, e la voce del cantante è un ghirigoro fluido sul passaggio di mano in mano dei biglietti, l’esplosione improvvisa degli idranti, la massa di gente che preme sui cancelli, mentre schermi giganti rimandano immagini di fiaschi e di fumo, ragazzi che si baciano rotolando sull’erba sovraccarica di umori. Il racconto del dottore procede con squarci suggestivi, vedute dall’alto, fari abbaglianti che illuminano a tratti il buio del futuro indefinito, rischiarato solo dalla fiamma di accendini levati verso l’alto quando arriva la canzone che colpisce al cuore. Cavedagna conosce a memoria i trucchi per attirare l’attenzione, strappare gli applausi, lasciare il lettore col fiato sospeso tra pagina e pagina; sa dosare con sapienza zoom, dissolvenze e primi piani, il particolare tecnico e la sensualità, il grido e il sorriso, la tenerezza e la violenza. Ma Cesare si trova a disagio nel crepitare degli eventi, nel fuoco di fila di trovate che rischiano di sviare la coscienza del lettore, alla ricerca di un senso. Gli occorre ritrovare un filo, il sentimento di fondo in cui traspaia la visione dell’autore, il suo sguardo sul mondo, il timbro di un’opera che è il segno irripetibile del genio. Ci penserà stanotte, al concerto del suo cantante preferito.