da qui
Cloe e Brice Cento si abbracciano, ma viene il momento in cui l’estasi fisica deve lasciare spazio alla parola pacata, al dialogo, al progetto. Il futuro immediato è fuori discussione: un ricovero urgente in ospedale, il Sant’Eugenio, che Brice ha frequentato in lungo e in largo per le vicissitudini di un amico ustionato gravemente. Rivede vecchi volti, suor Cristina, medici, infermieri, tutti pronti a dimostrare il loro affetto, come quando lo ospitarono per mesi, accogliendolo alla mensa, permettendogli di entrare fuori orario nella sala di rianimazione dove uno dei dottori, l’ultimo dell’anno, versava lo spumante nelle gole dei pazienti in coma perché partecipassero alla festa. Col torace bendato come un eroe di guerra, Brice si affaccia al balcone che guarda sulle ville e la vegetazione fitta del quartiere bene, le file di automobili che inseguono ciascuna un sogno, simile al suo, probabilmente, il desiderio di trovare un’oasi di pace nel caos del lavoro, dei rapporti alienati, dell’incapacità di sentire la musica del tempo, di ascoltare il cuore, non solo quando bevi sulla litoranea in fiamme, e la strada è un serpente a sonagli che può morderti da un momento all’altro, sprofondarti nel buio dell’insignificanza, nel canale umido della tristezza, quando premi sull’acceleratore sperando che dall’altra parte una macchina si allarghi più del solito, per cercare lo schianto che addolcisce ogni dolore, anche la solitudine, il pianto ininterrotto, senza lacrime, che nessuno vede, quando è notte e i cespugli della macchia sono angeli che segnano la via, perché c’è qualcuno che ti vuole bene, nonostante tutto, e non accetta che tu vada a travolgere il gard-rail e a ribaltarti sull’asfalto della disperazione e cominci a perdere il sangue e la memoria e non ricordi più perché Cloe ti stia stringendo il braccio e ti sfiori con la guancia morbida che sa di mare.