Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 27, 2011
da qui
Da fuori sembra tutto semplice: un’ ideale, una lotta, diritti da rivendicare, la gente che ti segue.
La chiamavano Nazione dell’Islam, e il suo profeta divenne Malcom – un amico? una spina nel fianco?
Quando lotti una vita per la non violenza e vedi intorno un mondo che cola sangue dappertutto, rischi di cadere nello scoraggiamento.
E invece, le contestazioni, l’accusa di debolezza e codardia, le voci maligne ogni volta che non eri alla testa di uno sciopero o di una manifestazione.
Ci sarebbero domande da fare, su una campagna d’odio che vuole distruggere anziché ricostruire.
Vorrei cantare, cantare per non sentire il rumore degli spari e trovare la forza di reagire all’ennesima accusa, per fermarmi ancora lungo la strada che conduce da Gerusalemme a Gerico.
Dovevo fare dei calcoli, naturalmente: per esempio, evitare di espormi là dove sarebbe stato facile eliminare la testa di tutto il movimento. Non capirono e mi gettarono la croce addosso.
La prima domanda è inevitabile: come giustificare la violenza, l’omicidio, la barbarie della soppressione fisica dell’altro?
Cantare, cantare, perché finalmente si sprigiona la forza rivoluzionaria della poesia – sapevi che solo alla bellezza è possibile rovesciare il mondo?
Qualunque cosa facessi, cercavano di mettermi in ridicolo: è il destino di chi lotta per qualcosa, essere scambiato per mitomane ed esibizionista.
Detta così, la posizione sembra indifendibile: può l’ingiustizia combattersi con l’ingiustizia, è giusto al sangue rispondere col sangue? Ci si può illudere di uscire dal circolo vizioso dell’antagonismo?
Perché quando canto mi pare che tutto cambi, che i nodi si sciolgano, che anche le ferite più profonde si rimarginino come per miracolo?
Conservatore! No, comunista! No, lecchino dei bianchi!
Si può solo opporre disperatamente occhio per occhio, dente per dente, che però – tremila anni addietro – era una legge giusta: se uno ti rompe un dente, non rompergliene due. Il canto della spada: Lamech sarà vendicato settanta volte sette.
E’ come se le membra sparse nella Valle di Giosafat si ricomponessero e formassero di nuovo un corpo integro, come se lo spirito che soffia dai quattro venti avesse il potere di rimetterti in piedi.
Senti che la gente comincia a diffidare, i primi fischi attraversano la folla e tu ti chiedi se valga la pena – volete andarvene anche voi?
Certo, quando vedi il tuo amico trucidato nel linciaggio, le tue parenti violentate, la tua gente marchiata dal disprezzo, la tentazione è forte – ora, chi ha un mantello lo venda e si compri una spada.
Conoscevo bene i poeti, sapevo che la poesia è l’unica a raccontare il vero, anche quando brucia.
La violenza genera violenza, i bianchi temono che un giorno i neri si alzeranno in piedi e restituiranno ogni schiaffo, ogni sputo, ogni linciaggio.
Conoscevo i poeti, sapevo che le favole nascondono sempre la verità, da qualche parte.
Molte volte ho studiato/ la lapide che mi hanno scolpito:/ una barca con vele ammainate, in un porto./ In realtà non rappresenta la mia destinazione/ ma la mia vita./ Perché l’amore mi si offrì, ma mi ritrassi per non illudermi;/ il dolore bussò alla mia porta, e ne ebbi paura;/ l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti./ Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita./ Adesso so che bisogna alzare le vele/ e prendere i venti del destino,
ovunque spingano la barca./ Dare un senso alla vita può condurre alla follia/ ma una vita senza senso è la tortura/ dell’inquietudine e del vano desiderio -/ è una barca che anela al mare, ma ne ha paura.