Pubblicato da fabrizio centofanti su novembre 1, 2011
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La gente riempie la piazza: sono in piedi, bambini, vecchi, adulti; uomini in giacca e cravatta, donne con abiti bianchi e occhiali da sole più scuri del normale.
Lo vedo, il viale alberato che arranca come un uomo anziano, segnato dalle prove della vita, dalle lotte, da una speranza che fatica a farsi largo tra uomini ostili vestiti di porpora e di bisso.
Ogni tanto qualcuno si muove, rompe le righe, con le mani sugli occhi: piange, forse, o va a rinfrescarsi la fronte alla fontana.
Lo vedo, il cielo, solleticato da nuvole leggere: mi guarda con gli occhi azzurri e benevoli di Dio.
Il colonnato è un abbraccio di marmo, infelice, consumato dall’oscuro rimpianto di non essere umano, di non avere un cuore, un respiro che acceleri o rallenti, una mente capace di sognare.
La vedo, la facciata della chiesa che ricorda San Miniato e ogni volta mi commuove, non so perché, non so perché.
Un signore vestito di scuro sta sfogliando un giornale, per raccogliere commenti e previsioni.
Lo vedo, il campanile, una penna che scrive la mia storia nelle pagine invisibili dell’aria frizzante di collina.
Il ragazzo con le braccia conserte si volta per cercare una risposta, come fosse possibile trovare una risposta voltandosi a destra o a sinistra, come se l’ombra della morte non fosse un panno grezzo che copre ogni spiraglio di senso, come se bastasse cambiare posizione per trovare un posto più comodo all’angoscia insopportabile.
La vedo, la scalinata grigia che ho percorso tante volte, come se la vita fosse salire, salire, raggiungere spazi rarefatti dove diventi ossigeno, atmosfera, firmamento.
Perché allora siamo qui, nella piazza enorme, davanti alla basilica maestosa, aspettando che qualcuno si affacci alla finestra, che dia un segno, un segno qualsiasi, una notizia, perché non c’è niente di peggio che aspettare, non c’è niente di più terribile che pendere dalle labbra, dalle cesoie spietate della parca Atropo.
Lo vedo, lo stemma con le chiavi, utilizzate per chiudere le porte, più che per aprirle, come se il Regno fosse un circolo privato, un club da cui tenere fuori chi non è desiderato.
Perché la morte fa più male quando muore un uomo come questo? Vorremmo correre, compiere un gesto qualunque, chiedere a un dio che dica una parola, stenda la mano, pronunci una formula capace di rimettere in piedi il moribondo, dare una possibilità ulteriore a chi ha aperto un orizzonte nuovo per l’umanità, disposta a ripiegarsi sempre sulle proprie delusioni.
Lo vedo, il crocifisso stanco di pendere dai chiodi, come se l’uomo non si decidesse a deporlo dal patibolo.
E chi dice che non sia l’agonizzante ad avere l’animo sereno, lui che ha combattuto fino all’ultimo perché negli occhi degli altri resistesse una luce, un sorriso sfuggito un giorno alla tristezza?
Lo vedo, Gesù bambino presentato al tempio, come avesse bisogno di raccomandazioni, come se il Padre non sapesse che che è l’unico uomo al mondo a non aver bisogno di spinte, di imbrogli, d’intrallazzi.
Non sarà consapevole di essere un canale del flusso che chiamiamo spirito e non sappiamo mai di dove venga né dove vada?
Lo vedo, il santuario dal portico elegante, dove mi sono inginocchiato tante volte per chiedere una grazia – lo sai, vero, che bisogna chiedere una grazia, quando si entra in un santuario?
La cupola è un seno di donna che si offre ai fedeli-bambini, alle facce sconvolte di chi attende una notizia, pregando e imprecando, perché non c’è niente di peggio che aspettare, pendere dalla labbra secche, dalle cesoie lucide di Atropo.