Il 5 dicembre 1933 il presidente americano Franklin Roosevelt mise fine ai tredici anni di proibizionismo americano.
I primi movimenti proibizionisti nacquero negli USA già alla fine del Settecento sotto forte richiesta delle cosiddette “Società di temperanza”, gruppi caratterizzati da matrici moralistiche. Quelle che si mossero più di tutte per la proibizione dell’alcol furono la Anti-Saloon League e la Woman’s Christian Temperance Union. La prima, formata dalla classe borghese, attuò un programma di propaganda tramite locandine e pubblicità; la seconda, gruppo fondamentalmente femminile e religioso, si servì della Chiesa. Entrambe avevano scopi comuni: salvaguardare la popolazione americana dagli abusi dell’alcol, in particolare donne e bambini, spesso vittime di violenze causate dall’ubriachezza; migliorare il rendimento lavorativo, con la convinzione che l’uso di alcolici portasse a carenze sul lavoro e all’assenteismo; fare in modo che la gente spendesse i propri soldi per beni nati dal sistema produttivo piuttosto che per bere.
Nel 1919 la pressione da parte delle associazioni arrivò al culmine: vennero sanciti il Volstead Act e, il 15 gennaio 1920, fu approvato il XVIII emendamento che dichiarava la proibizione della vendita, del trasporto, dell’importazione, dell’esportazione e della produzione di alcolici in trentatré paesi americani.
Le associazioni di temperanza avevano ottenuto, su carta, un’America pulita e libera dall’alcol. In realtà le cose andarono diversamente. Grazie al proibizionismo si intensificò il mercato nero, i prezzi salirono alle stelle e il governo americano perse circa il 14% delle entrate sulla tassazione degli alcolici. Gli unici a guadagnarci furono i gangster e la criminalità organizzata. Si erano create vere e proprie bande che lottavano tra loro per il monopolio del contrabbando dell’alcol. Figura famosissima che operò in questi anni è Al Capone, che riuscì a estendere il proprio potere su tutta la città di Chicago. Nacquero e in pochissimo tempo si diffusero enormemente i “Speack-easy”, piccoli locali in cui si vendevano alcolici illegalmente a prezzi più moderati, chiusi a chiunque non fosse nel giro della frequentazione e quindi non conosciuto nell’ambiente. La diffidenza era tanta, tanto più perché i Speack-easy erano riforniti dai gangster della zona.
Risultato di questo “Noble Experiment” (così fu chiamato il proibizionismo dal governo americano)? Chiunque volesse bere, beveva ugualmente, se non molto di più e a prezzi esageratamente maggiori. Il sogno di un’America sobria non andò in porto. Consapevole di questa situazione, nel 1933 il presidente Roosevelt, appoggiato da moltissime associazioni antiproibizioniste nate nel frattempo, decise di abrogare il XVIII emendamento con il XXI. L’America era finalmente libera dopo tredici anni di proibizionismo. Le casse americane ritornarono floride grazie alle tasse sull’alcol e il mercato nero crollò istantaneamente.
Nell’America odierna la situazione è leggermente migliorata, il consumo di alcol è diminuito rispetto agli anni del proibizionismo, ma resta comunque alto. Basti pensare che in America, come anche in Europa, circa il 10-20% degli uomini e il 5-10% delle donne arrivano ad essere considerati alcolisti. Soprattutto è allarmante l’eccessivo consumo dai parte dei giovani. Nonostante l’età minima per comprare alcolici sia fissata a ventuno anni, moltissimi hanno trovato il modo di raggirare questo ostacolo: documenti falsi e feste private la fanno da padrone. Le leggi americane, infatti, vietano la compravendita di alcol ai minori, ma non il consumo.
Gli anni del proibizionismo hanno aperto gli occhi agli americani: vietare e proibire non serve, anzi. Esattamente come allora, anche oggi è stato trovato il modo di eludere abilmente la legge. Imporre le decisioni dall’alto non si è rivelata essere una soluzione ottimale, ma collettivizzare il problema e attuare riforme sociali e di sensibilizzazione, probabilmente, potrebbe aiutare molto di più.
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