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50. Nel suo guscio

Creato il 24 gennaio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su gennaio 24, 2012

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Perché sei tornata? Quale forza ti spinge a ritrovare questa piazza, l’ovale che già comincia a gremirsi di gente, di risate, di grida di ragazze? Hai bevuto di nuovo, Dalia? Cosa stai cercando veramente? Fai la fila al botteghino quasi in trance. Ti vengono pensieri malinconici, il male si è annidato nel passato e ancora oggi si affaccia col suo ghigno. Possibile che siano tutti felici tranne te? Guardali bene, impara a leggere i pensieri. Potresti riuscirci? Osserva il giovane che ascolta la musica con le cuffie e scuote la testa con lo stesso ritmo: da cosa sta fuggendo? Non sarà stato ferito anche lui da genitori distratti, non starà pagando il prezzo di un amore sbagliato, di un tradimento che ha generato violenza, cinismo, ribellione? O il tipo maturo con lo sguardo fisso verso il nulla: quali immagini lo stanno visitando? Prova a calarti nel suo vestito grigio, nei capelli spettinati che sembrano lanciare un appello a una libertà perduta, che si trascinano la polvere di un ufficio contabile del centro, dove tra colleghi ci si guarda di traverso, dove uno che decide di aprirsi, di compiere un gesto generoso è accarezzato da una smorfia di disprezzo: povero illuso, ancora credi nel sogno d’incontrarsi, di condividere qualcosa? O la ragazza con la testa reclinata che pare si debba addormentare in piedi da un momento all’altro: perché è venuta sola? Possibile che non abbia trovato uno straccio di compagno con cui spartire un frammento di bellezza nel cielo plumbeo dei giorni tutti uguali?
Ecco, a poco a poco ci stai entrando, ci riesci. Puoi fare un tentativo: chiedere all’uomo che ti ha sfiorato con un’occhiata indifferente se è vero che sta pensando già a domani, che è preoccupato perché non sa come spiegare alla moglie che si è preso una sera di vacanza, che aveva bisogno di una boccata d’aria pura, libera dai litigi e dai puntigli, dal dovere di fare resoconti, dalla condanna a non poter più avere un guizzo di entusiasmo, o gridare l’energia che sente affiorare sulle labbra; diglielo che l’hai capito, che hai anche tu sai leggere il pensiero, che sei lì per aiutarlo, piovuta da chissà quale cielo per dirgli che c’è ancora un modo per essere felici.
Dallo stadio arriva una musica smorzata: stanno provando gli strumenti? Sono canzoni registrate che servono a creare l’atmosfera?
- Come sta?
- Dice a me?
Sei matta, cosa ti salta in mente? Davvero vuoi attaccare bottone? E se ti prendesse a parolacce? Se fosse un maniaco che potrebbe approfittare di una donna ubriaca?
Ricordi gli occhi neri dell’uomo col soprabito scuro, lo sguardo dolce e penetrante cui non si resiste, il sorriso appena accennato sulle labbra.
- Sì, dico a lei. Mi chiamo Dalia.
La musica cresce, ora è un’onda che ti alza da terra, ti fa vedere la città dall’alto, scruti coi tuoi occhi neri le profondità delle case, oltre le finestre, scendi come un minatore stanco nell’anima di miliardi di persone chiuse ognuna nel suo guscio, come tra le sbarre di una cella di cui non si sa dove cominci né dove – e se – abbia mai fine.


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