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55. Eleazar

Creato il 08 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su novembre 8, 2011

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Si cominciò dalla riforma della liturgia, pensando di affrontare un tema meno problematico.
Paramenti e paraventi, altari e altarini, camici, calici e salici piangenti, profferte e offertori, canti e manti, organo (del partito comunista?).
E invece esplosero le polemiche più dure, le fazioni opposte dichiararono guerra e guerra fu.
Monache e tonache, chierichetti e mortaretti, alcove e baldacchini, finestroni e minestroni, cupole e padrini, ceri e neri, pala e mala.
Se ne sarebbe mai venuti a capo? Dovettero pregare per interventi brevi – forse prendevano tempo, cercavano di sfiancare l’avversario con lungaggini verbali?
Tonsure e censure, tabernacoli e vernacoli, fiori frutti e città, elevazioni e perversioni, manutergi e manutengoli, ginocchi e finocchi, tombe e bombe.
Si sarebbero potuti intaccare secoli e secoli di gesti, formule, abitudini? Il rito non dovrebbe restare sempre uguale per essere riconosciuto dall’inconscio, per permettere l’accesso alla sfera del mistero?
Opus Dei e opus latericium, nicchia e picchia, incenso e melenso, omerale e omerico, coro e moro, chitarra e scimitarra, carestia e eucaristia.
Conservare il latino? Passare alle lingue nazionali? Era più giusto che il popolo capisse o si stupisse?
Preferisci una Chiesa irrigidita nella forza di celebrazioni immutabili, dove sai che l’io si perderà per ritrovarsi a un livello superiore o una Chiesa che si offre nella povertà dei mezzi e si rende accessibile anche ai disperati, ai maledetti della terra?
Difendere il passato perinde ac cadaver per il solo fatto che è il passato o credere che l’oggi è sempre nuovo, una sorpresa che sbilancia, uno sguardo su versanti inediti perché nessun giorno è come l’altro?
Bisogna tener duro, servirsi dei baluardi della tradizione o cedere alle mode del momento, per cui si finirebbe coll’officiare con lo scolapasta sulla testa e il matterello in mano?
Godersi il mistero nelle atmosfere rarefatte di basiliche grondanti d’oro o spiegare parola per parola, gesto per gesto il senso di funzioni cui partecipi e di cui non comprendi quasi nulla?
Ammettere, accogliere, introdurre o lasciare che la gente si occupi di devozioni personali nel mezzo di culti inafferrabili?
Mi viene in mente che tra religiosi hanno sempre litigato, persino a Qumran, tra le rocce battute dal sole, si accusavano di tradimenti ed eresie; dove c’è lo spirito, il carisma, c’è anche la rissa e la separazione, l’anatema e il giudizio.
La liturgia non è la cattedra privilegiata per far passare i contenuti della fede? Non bisogna, quindi, comunicare con la massima chiarezza? Eppure, perdendo il senso del mistero, non si finisce col perdere Dio stesso?
L’altopiano è un volto che ti scruta, sembra dire qualcosa, parlare di giustizia, non di quella venduta nei tribunali umani, una giustizia nascosta nell’arco in pietra grezza, nella terra appena bagnata dalla pioggia, nello spicchio di cielo oltre il quale si spalanca l’universo.
Cosa ha fatto Gesù? E’ questa la domanda che bisogna porsi.
Una giustizia nascosta nel cespuglio addossato alla parete di pietra, nello squarcio che si apre tra porta e porta – una soglia non ti fa pensare alla speranza, a un’altra chance, la vita non è passare da una stanza all’altra? Aspettarsi l’incontro decisivo?
Gesù non si è fatto capire dal pubblicano e dall’adultera, dal lebbroso e dal cieco? Non si è espresso a gesti con il sordomuto? Mi chiedo, però, se Cristo preferisca lo strumento del dialogo o ci strappi dalla tomba con il grido di Betania, il giorno della risurrezione di Eleazar.


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